Liriche inedite
Vita mia
Sprazzo di luce tra un’alba e un tramonto,
ove Fatica reiterata affronto,
vi si ripete in ogni nuovo giorno
che se ne fugge senza far ritorno
nel marasma di sintesi e fluire.
Noi lo chiamiamo morte o divenire,
perciò ha buon gioco pur la religione
quando ci parla di resurrezione.
Caleidoscopio di atomi la vita
nel tempo che ci fugge tra le dita.
Forme e colori par che rinnovelli,
coi componenti che son sempre quelli.
In questo rinnovarsi in verità
credo si sveli a noi l’eternità
siccome vita vuole:
rigenerata prole.
Il giorno del poeta
S’alza al mattino con le borse agli occhi
mentre la mano gli regge la fronte.
Sogna ogni giorno un gran pranzo coi fiocchi,
bere un buon vino, non acqua di fonte.
Messa a tacere un po’ l’ipocondria,
fra le terrazze aperte sulla piazza
fiutando culatello e malvasia
cammina altero, solleva la bazza.
Pasce il profumo, beve la saliva,
la frutta è nell’occhiata ad un bel seno
semiscoperto di un’oca giuliva
che starnazzando va senza alcun freno:
ecco il suo pranzo, ecco la sua cena.
Se un dì lui diventasse un gran magnate
(dentro di sé s’immagina la scena)
persona fra le più altolocate,
tutti costoro egli inviterebbe
nella sua Arcadia per un gran banchetto.
Lo spettacolo loro servirebbe
solo pel suo piacer, pel suo diletto.
Non ha coscienza d’essere un tapino,
un disarmato cacciator di sogni,
prosegue trasandato il suo cammino
trascurando perfino i suoi bisogni.
Non ha baiocchi però sa sognare,
fare simposi con la fantasia,
grandi avventure dentro un lupanare
imbellettate dalla poesia.
Al tavolo di un bar
Fra sfaticati si usava ciarlarne
non accettando alcun compromesso:
«L’uomo e la donna son fatti di carne
e non di coccio e neppure di gesso»
ci sussurrava Giannino il barbiere,
mentre avido leccava il suo gelato
della Martina palpando il sedere.
Con quali versi l’avrebbe cantato?
E tutto il chiacchierare ne ruotava
attorno all’argomento da trattare,
ai pregiudizi e a chi ci consigliava
su come fosse meglio poetare.
E la risposta che sentivo spesso:
«In arte non sappiamo cosa farne
di turbolenta apologia del sesso!
Non insistete, non serve parlarne.»
E la diatriba seguiva ad oltranza
tra i moralisti della religione
e chi tacciato di somma ignoranza
diceva: «Di natura è la funzione!
Tanto vale narrarne in libertà.
Siamo poi noi a farne una questione
pensando che sia solo oscenità.
Dite pure la vostra di opinione.»
«Io credo che sia un mezzo per far soldi»
disse Gioberto «e che all’origine
ci sian soltanto quattro manigoldi
che sfruttano dell’uomo la prurigine.»
«Non ha poi torto. Soltanto il denaro,
- per altro opinionista - è la cartina
al tornasole tra genio e somaro.»…
«L’arte di guadagnare è la dottrina
non solo di magnaccia e di puttane.»
«Ognuno al mondo si gioca le carte
che in mano ha per procacciarsi il pane;
non ha bisogno d’imparare un’arte.»
«E tutto ruota attorno al portafoglio.
Il dio denaro ha preso il sopravvento:
il vero, il solo motivo d’orgoglio…»
«Il sesso può servir come argomento.»
Botte e risposte di pensiero vario
d’estate tra la noia e l’apatia,
tra una birra e un caffè, in quel sudario
ch’è piazza Roma presso casa mia.
«Il soldo è solo un coronamento,
che depistare fa poi la pulsione»
sostenni allora «è mascheramento…
un contrappasso, una trasposizione.
Si potrà credere oppure non credere,
ma dall’inconscio riemerge fecondo:
etero, omo, oppure transgenere,
ovunque, il sesso a incasinare il mondo.
A chi lo crede un mezzo per campare
e voglia assicurarsi il posto fisso
consiglio caldamente il lupanare:
è il luogo ove non esser crocifisso.»
Ho amato molto, ho amato scopare
senza comprarmi mai quel godimento.
La femmina ho cercato conquistare
con tanto amore e con sentimento.
Al mondo c’è chi mangia sol per vivere
e pur chi vive solo per mangiare,
io che vivacchio, ma non sullo scrivere,
non voglio limiti nel poetare.
Il fieno per l’inverno è già in cascina,
lo colsi ancora verde a primavera.
Il vino per la sera l’ho in cantina,
mi attende solo l’ultima frontiera.
Sparate a zero, se volete, all’uomo,
crocifiggete pure anche il poeta,
non sono santo da incensare in Duomo
e neppure mi atteggerò a profeta.
Mi pensino dotto, oppure somaro,
ai puritani della borghesia
dico che me ne fotto del denaro
e canto il sesso senza ipocrisia.
Sento Giovanni che canta in bottega
tra una tintura, uno shampoo e una piega:
«Ciapitt, ciapott, ciapèla,
la ciapa lé tosta, la ciapa lé bèla
pitüri anca quèla»
Divergenze
Credo che la polemica vertesse
S’una qual paritaria discordanza
tra il Nord e il Sud elvetico e vivesse
il Ticino una certa sudditanza.
Cantone che non è carne né pesce,
che vuol essere elvetico e un pochino,
ma a volte, ahimé purtroppo non ci riesce
con altrettanto slancio, anche latino.
Pensai che, forse, questo suo dilemma
nascesse da una qualche dissonanza
tra la tedesca ottusità e la flemma
opposta alla latina esuberanza.
Percepivo una vaga ambiguità,
un certo malessere sommesso
di chi sia privo di un’autorità
e d’inferiorità abbia il complesso.
“Vessato dai Tedeschi
snobbato dai Romani,
mi pare ch’esso peschi
solo scarpe e rottami“.
«Confondi il burro con la ferrovia»
mi scrisse un dì un politico nostrano:
uno che pensa solo alla butrìa
perché sia piena dalla bocca all’ano.
Volevo dirgli: «Amico, sei perdente:
brontoli, piangi, fai come il bambino;
non sai che a Berna tu non scuci niente?
Tieni la cresta bassa quel tantino».
Scopro talvolta ch’è più dignitoso
subir l’umiliazione di un rifiuto
che dimostrarmi offeso e rancoroso
pel disconoscimento non dovuto.
Pazienza, mi son detto, non rispondo.
Se il truogolo egli vuole ben riempito,
non tutti siamo uguali a questo mondo,
io l’amo più variato che fornito.
Pertanto abbraccio questo bel Ticino
putativo, piacevole ad oltranza,
con il suo sole, i monti, il suo buon vino,
l’animo allegro e privo di arroganza.
Interrogativi
Che l’uomo faccia parte del sistema
mi pare sia assodato da millenni,
ma che la sua presenza sia un problema
è un fatto emerso solo da decenni.
Che cosa ci stia a fare sul pianeta
è cosa tutta quanta da chiarire;
che ruolo svolga la sua vita inquieta
nell’equilibrio io non saprei dire.
Questa ragion, ch’è tutto il nostro vanto
fa parte o non fa parte del teorema
darwiniano? Se tanto mi dà tanto
l’evoluzion che governa il sistema
che cosa serba in nuce pel futuro?
La soppressione dell’intera specie
o muterà la Terra in abituro?
Passerà l’uomo, certo, ed in sua vece
noi non sappiamo cosa interverrà,
ma questa razionale creatura,
la cosa è certa, un giorno sparirà.
Morrà con lei l’intelligenza pura,
la smania assurda di voler creare.
Tornerà l’Eden o tutto perirà?
Ritornerà la Terra ad inventare
o sasso inerte in cielo vagherà?
Per un quantum di coscienza
Ecco… forse… però… non so. E sporge
sornione dal bordo oscuro dell’anima
un pensiero; fa capolino, sorge
come odierna variabile quantistica
del mio discernimento.
Ha un nome: coscienza.
Che cosa ha a che fare con la scienza?
Sprazzo di consapevolezza,
cesoia fra il senso del bene
e quello del male;
sequenze diverse di Quanti,
sistema binario di poli
che muove l’agire:
dipana nel grembo la vita.
Ma in ultimo cosa rimane?
Pare la forza suprema
che tiene per mano le stelle.
E l’uomo?
Oscilla fra quelle.
Senza più boria, nell’umiltà,
spogliatosi alfin della mota,
torna nel grembo dell’eternità.
Transitando
Tra uomini indossanti la zimarra
e donne in crinolina o redingote,
(era nel freddo inverno che intabarra)
tempi di cicisbei e di cocotte.
Erano anni quelli assai diversi?..
La stessa fame e niente liberà.
Lanciai un vagito: l’urlo dei perversi
gridando all’Universo: «Eccomi qua!»
Comparso son nel fiume della vita
a fare cosa ancora non si sa.
Giocato ho quasi tutta la partita,
son forse pronto per l’eternità?
Dal mondo dei romantici languori
son transitato nell’antropocene,
i sogni sono morti insieme ai fiori
e lascio ad altri le nuove sirene.
Sofia
Ricordo la Sofia: era scaccina
di tutti i preti del nostro pese,
scopava e spolverava nelle chiese
sempre serena come una bambina.
Sembrava persa nella fantasia.
Di ogni sacerdote era servente,
urla e rimbrotti non sortivan niente:
era un esempio di… filo-sofia.
L’erba voglio
Amo saltar nel vuoto
in cerca dell’ignoto
perciò la lingua arroto.
Voglio parole strane, artificiose,
neologismi o vecchie, rugginose.
Mi piaccion le più strane e più “logose”
raccolte lì per lì facendo strame
di quelle consuete, del certame
di tutti i dì. Voglio del vasellame
che sia cineseria:
voglio l’acrobazia
nella mia poesia.
Saggezza orientale
Lettore disattento,
su, siediti un momento:
pensi che questo giorno
mai più faccia ritorno
e corri appresso a che?
Muoion barboni e Re.
Quel che conquisterai
non te lo porterai:
il tuo affannarti è insano,
non agitarti invano.
Ambisci al cibo, al sesso e al sapere?
Il cibo passa ed esce dal sedere.
La moglie, sai, non sempre vi è disposta;
se incinta, ti rifiuta la proposta.
Lo sperma che ti urge molto spesso
lo spurghi per lo più dentro ad un cesso
perché ti par costoso e poco bello
far sempre dentro e fuori dal bordello.
(Chi cova l’ambizion di procreare ,
chi invece si accontenta di sborrare.)
Quanto al saper, che certo non si spreca,
l’han messo a far la muffa in biblioteca.
Impara la lezione dal fachiro:
dormi di giorno come fossi un ghiro,
poi nella notte fa meditazione
con dello yoga in continuazione.
Pioggia d’autunno
Che dice la pioggia d’autunno
Che scende noiosa,
Che bagna ogni cosa,
che dice, che dice?
“L’inverno è alle porte,
la terra soggiace
al freddo precoce,
e il cielo si tace”.
L’albero spoglio al cielo protende
la sua nudità: le braccia contorte.
Il cielo pudico si offende
e manda un sudario che copre. È la morte?..
Sotto quel manto che avvolge ogni cosa
la vita però non si arrende:
sonnecchia beffarda… riposa,
sonnecchia e attende.
Armato di ruspa e badile
l’uomo si crede il Signore,
vuole domar la natura, la vuole servile,
è competitore.
Scava e rimuove
scorteccia, scompone,
combina, fa prove:
si sente padrone.
Non sa ch’è un’incauta mossa,
che l’equilibrio s’incrina.
Caparbio si ostina,
continua a scavarsi la fossa.
Lampi
… Bagliori nel buio:
iconiche memorie,
frantumi senili.
Riflessi sconnessi
di un mondo diverso,
di un mondo ch’è immerso,
ch’è perso nel tempo che fu.
Non vergognarti
Non vergognarti d’essere nudo,
nascesti vergine in nudità,
ma il vaticinio che leggi è crudo:
morrai vestito… di oscenità.
L’amara verità
Dice la scienza, l’evoluzione:
inutile credere nell’aldilà
ch’è panacea, abdicazione
per un’ottusa serenità.
Nato per credere,
ricco o pezzente,
sciocco o sapiente,
devi decedere,
finire in niente.
La vita
Sala di attesa verso l’aldilà.
Rapsodia darwiniana
Inverno~inferno~interno
Inver(-n)o = Invero =
= ivero †
(-i)vero = <
vero+verno+averno~averna+taverna
|
~
/\
cero~nero~mero~pero~zero
|
(-)ero #.
Grafema = gene.
~ = mutazione.
+ = aggiunta di una lettera o gene
- = sottrazione di una lettera o gene
Aggiunta e sottrazione generano nuovi lemmi (specie) oppure l’estinzione per perdita di significato (vedi “ivero”)
La specie estinta lo è solo in sé perché ha in nuce la possibilità di un salto metamorfico perdendo un secondo gene: la “i” iniziale cosicché ha origine una nuova specie di significati con capostipite “vero” e il processo riprende su di un altro piano semantico da “vero” con mutazioni lineari per aggiunta e sottrazione e questo all’infinito, alternando parole che muoiono a parole che nascono con significati incomparabili e inderivabili.
C’è chi avrà successo e chi no; chi prolifererà e chi si atrofizzerà.
Sono le “specie” di un nuovo linguaggio.
Il parallelismo è evidente, già!
Chi non ci vede Darwin?
Così il cervello del poeta si abbandona alle libere associazioni in un susseguirsi di immagini unite fra loro da legami evidenti o reconditi; reali o immaginari; espressi e non quand’anche inesistenti in una darwiniana rapsodia delle immagini e dei contenuti.
La comprensione della composizione non è più oggettiva, dettata dal compositore, ma lasciata alla soggettività interpretativa del lettore.
Cercando l’intesa
A: «L’azion militare è stata fraintesa»
B: «No. È una guerra, è un’invasione»
A: «Andiamoci piano con le parolone»
B: «La truppa immota non è,
di pace ne è l’architrave?»
A: «L’architrave non è ad arco
e nell’immota che c’entra la mota?»
B: «Così le ciambelle non sempre sono belle».
A: «Diciamo e il verbo s’ingrippa con amo e con l’amo».
B: «E dagli!.. »
A: «Ah! gli agli! Vi ammorbano il fiato?»
B: «Stavolta, stravolta e poi disinvolta, sconvolta, rivolta
son pipistrelli appesi alla volta?..»
A: «Han forse dei pesi?..»
B: «Beh, io direi»
A: «E poi di rei io qui non ne vedo.
Non sono né bravi né rei…»
B: «I bravi che cita il Manzoni?..»
A: «Che c’entra il Manzoni?
Manzoni era un uomo,
non una mandria di buoi:
fu uomo di grande successo».
B: «Anch’egli, di certo, sedette sul cesso,
se grande non so… »
Babele dipana
l’intesa lontana.
Metafore.
La lingua che chiamano idioma,
talvolta è un trancio di ciccia
in bocche, per denti
mordenti
al desco dei belligeranti.
A Kyiv
Cucciolo d’uomo che guardi
con occhi profondi, spauriti
uomini incarogniti,
le mani artigliate a una gonna di donna
e un groppo che in gola trattiene
un pianto dirotto che preme.
Così spaventato,
a un grembo abbracciato,
nel tempo che geme
sei speme.
Pensaci tu
S’agita l’uomo, ruspe e badili
prepara in silenzio,
spalare dovrà sentieri e cortili.
Dell’indolenza teme l’assenzio.
Il topo squittisce, piange il tapino
in bocca al gatto malandrino.
E la neve che cade, che cade, che cade.
Imbianca tutto: le case, le strade.
Una civetta d’estate piangeva,
diceva che qui non se ne può più:
«In Paradiso si andava in camicia
per dire a Gesù che stava lassu:
è stata la micia, la micia, la micia,
Ti prego, Signore, pensaci tu».
Borbottan budella e prude la pelle…
«Caro Dottore. Che Dice?.. Conferma?
Credo sia colpa delle frittelle»
«Provi con panna burrosa sul derma.
Lei s’è ingoiato già troppe ciambelle»
«Già che fermentano e gonfiano quelle!
Provi con grappa e mollica rafferma».
Pare un’idea più balzana, stavolta:
“Nati per credere?” Tanto che importa
se prima o poi ci troviamo tra i fu.
Grazie “Pikaia” pensastici tu.
24 febbraio 2022
Io, che sotto le bombe
ho vissuto l’infanzia
non amo vuote parole
di fatua commiserazione,
mi chiudo
in un disperato silenzio.
Pace
Tremula nota
nell’aria immota
che tollera ad oltranza
l’ottusa, patetica ignoranza.
Il senso del nonsenso
Deplorare,
plorare,
implorare
non vale:
scacazzano le tortore sul davanzale.
Penombra
Amore: parole a rivestire
un folle sentimento,
languore di un tormento,
orgasmo di un momento
e fu autunno.
Echi ognor biechi.
Poeta di piccole cose noiose
nel nebuloso
silenzio serotino.
Zappo tra i ricordi.
Lo sferragliare stridente di un tram
rammenta quand’ero bambino:
sirene, motori, esplosioni,
bagliori,
scarponi, canzoni.
“Faccetta nera…”
Cos’era?
Il babbo lontano…
Candela di stearina
e mamma che cuce
In cucina
nel buio che tace.
Bisbiglian gli spilli fra i denti:
«Quando nel fango io devo camminar…».
Campane al chiaror del mattino.
Lilì, è ora ch’io vada
sull’orme di chi ho perduto per strada.
Tormenti
Nacqui, crebbi e sottovissi
giorni prolissi
che sovrapposi
a quelli odiosi;
Ora li guardo
un po’ in ritardo:
tutti corrosi.
Scrivo a buon conto la filastrocca,
quella che abbiocca;
quella del sonno
che coglie il nonno
sulla poltrona.
Intanto suona una campana…
fioca… lontana… tana… ana… na…
Quanto è durata
la mia giornata?
La dimensione
delle persone,
la vibrazione
d’un cellulare?
Tiro a campare.
Forse mi restan
da biascicare
parole insulse
un po’ convulse,
per una festa
fuori di testa
finita male.
Sfuma lontana
quella campana… pana… ana… na…
quella del morto
non del Risorto.
Suona per tutti
e non fa torti.
Già!
Guardo la gatta,
l’amica
ammicca:
occhio a fessura
che mi misura,
ben oltre guarda.
Gatta beffarda!
E mugugnando
contro il destino
vo calpestando
lungo il cammino
i predefunti:
quelli vissuti
mai conosciuti.
Vado per fratte
sconvolte, vessate
dal vagolare
in vie da inventare,
per una Terra
priva di guerra,
di stolte campane… pane… ane… ne
Odo la bieca
civetta che reca
oscuri presagi
di tristi naufragi,
di giorni defunti
a un io che cammina
scendendo la china.
Sì, la civetta,
prefica perfetta,
e sotto l’arsura
di un sole che usura,
che brucia, che arde
impreco alla pioggia,
a un sole che sloggia
le nuvole in cielo,
si beffa del gelo
astrale.
Non vale!
Tocca e rintocca
quella campana
profana… fana… ana… na.
Mota strasecca
che screcca
sotto il mio piede.
Non cede.
Impronta non lascia,
(bagascia)
né traccia
né una minaccia
alla vita che grulla
si sfuma nel nulla.
Lungo la piana,
l’eco addipana,
la filigrana
della campana:
“Nirvana… vana… ana… na”.
Opinioni
La dimension da me esperita:
siamo energia, materia e vita;
peso, altezza, larghezza, durata
se si è fatta un’abbuffata;
quindi gli aspetti dell’estrusione
nella sola direzione:
corpo sano
transito bocca-ano.
Sesso?:
senza eccesso.
Divagazione?:
ideazione.
Sul portale del Duomo?:
l’Uomo.
Dietro il maniero?:
il cimitero.
Residuato?:
humus
e alla fin ciclicità.
Già, ma l’anima dove sta?
Eccidio
La pannocchia di sorgo rosseggiante
specchiata in acqua indolente e pigra
che sempiterna rifluisce e migra
sembrò gridarmi: « Eilà, viandante..!»
Tornato al borgo,
guardai dal ponte, appresso
il mulino sul Tergola, il riflesso
nel roteante gorgo
dietro la chiusa oltre le porte.
Frusciando il sorgo mi parlò funesto,
mi disse: «Trovami il pretesto
di quella strage, il senso della morte».
Tremula l’acqua al sole del mattino
specchiava, fuggente, in superficie
il volo d’una coturnice.
Nella piazza guaiva un cagnolino.
La stanca ruota si accodava al murmure:
«Ricorda! accadde ieri…»
Pensieri.
Anche in quell’alba girava
la ruota del vecchio mulino
che macinava,
che cosa..?
credo il Destino.
Silenzio campestre,
persiane semichiuse nel meriggio
sonnolento.
Nessun sorriso alle finestre.
Scrosciava l’acqua fra le pale
e la ruota girava,
narrava
di un’illusione frale
l’acerba verità,
le foto su quel muro l’han cercata,
l’han voluta, l’han trovata:
…Libertà.
La goccia
Toc… toc… toc…
Guardo la goccia
che cade, che buca la roccia.
La goccia… la goccia,
monotona, uguale,
scandisce il mio tempo.
Sessanta per ogni minuto
le gocce del tempo perduto,
l’avessi voluto!
Ma il Caso è con il Destino
e giocano a rimpiattino:
«Sotto a chi tocca!»
Ploc… ploc… ploc
pare che dica la goccia.
L’acqua diroccia
e bagna, per questo la roccia si lagna.
La goccia scandisce la vita:
è l’acqua sfuggita.
A volte ti lava la pozza
a volte t’insozza.
Nel buco mi tuffo
scavato dall’acqua nel tufo,
la grande piscina:
la vita, che ogni mattina
lamenta del tempo vissuto,
che avrebbe voluto,
sorbito, bevuto,
diversa dall’acqua del buco.
Destino del fuco.
Toc… ploc… gloc…
Latébre
Cuoceva l’uovo all’occhio di bue
Mi chiese il tuorlo:
«Perché?
Chi mai ti ha narrato di me..?»
Abissi dell’anima.
Corruccio
di menti riflesse in se stesse:
l’ignoto,
il tempo remoto,
il tempo a venire
e nel presente l’ardire…
Caino
Se poi spiegare non sai:
Destino!..
Ti spaventa l’embrione?
Quante storie per un uovo!
Il naso
Davanti allo specchio
col capo all’insù,
col capo all’ingiù,
or or di profilo,
or altro di sbieco
con molto sussiego,
la donna studiava il suo naso.
Pensava:
«Naso francese o naso aquilino?
Naso alla greca o incolto: latino?»
La donna riflessa
studiava il suo naso perplessa.
L’immagin diceva a se stessa:
«Un poco di plastica
e di botulino,
ma solo un pochino,
saresti fantastica!»
Il merlo
Seduto in giardino
a prendere il fresco
con quattro biscotti,
la birra sul desco,
perplesso ascoltavo
un merlo cantare sul pino:
tiò tiò tiò…tì
cipiucì…
Il gatto, com’usa,
faceva le fusa
in grembo a mia moglie.
Parea sonnecchiare
satollo e tranquillo
senz’ombra di assillo.
Non penso russasse,
neppure sognasse.
«Cicciricì cioccì»
strillò inferocito
il merlo ingrugnito:
«Mi vengon le doglie
vedendo tua moglie
che coccola il gatto
autor del misfatto.
Mi ha ucciso la prole».
«Ron ron che trombone!»
Il gatto sornione:
«Le scuse son buone
per far della lagna,
d’altronde si magna».
Ma dopo un ben calcolato silenzio
L’uccel redarguì:
«Cicciiucì cicciiucì cicciiucì! »
Insonnia
La notte è discesa,
le imposte son chiuse,
saluto le Muse
mi accingo alla resa.
Un filo di luce
nel buio notturno
che cosa produce?:
Effetto diurno.
Quel raggio di luce
che occhieggia dal buco
s’espande, riluce
ruscella, seduce.
Il vecchio lampione
mi parla dal foro,
mi dice sornione:
il sonno è un tesoro.
Però c’è un però:
la lama di luce
vegliare m’induce,
dormire non so.
E mille pensieri
la mente rimesta
di oggi, di ieri:
m’ingolfan la testa.
Io temo la morte,
mi pare che occhieggi,
la sento alle porte,
sospetto che armeggi.
E c’è la civetta
s’un tetto a Ligurno,
squittisce: «Che fretta,
aspetta il tuo turno!
Le nicchie approntate
per questa tornata
son tutte occupate.
La prossima ondata
ti attende, tranquillo!
abbraccia Morfeo,
risvegliati arzillo,
Queo…queo… queo. »
Monte Generoso
Un refolo d’aria
carezza la guancia.
In vetta un uomo si lancia
in parapendio,
forse va in cerca di Dio.
Un solco di luce,
perfora il fogliame,
traluce candor di pietrame…
poi varia la sua direzione.
Vocìo di persone.
Riflesso da specchio
lo sguardo di un vecchio
compare, scompare. Fobia
nel buio in galleria.
La cremagliera che stride
in curva e deride
il montano silenzio:
l’assenzio
che vado cercando,
sognando, invocando.
Il monte che incombe sul lago
esala un vago
profumo di fiori,
indefinibili odori.
C’è un corvo che vola lontano.
In vetta
che cosa mi aspetta?
Non so neppur io,
ricordi di vecchie torture,
di trafitture
che impressero un segno,
tarparon l’ingegno.
La specola chiusa s’un cielo
coperto da un esile velo
preclude l’arcano.
Ricordi e null’altro,
che sono il vincastro,
il solo bordone
alle persone: preghiera
sul far della sera.
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