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frammentario

Scartafaccio di pagine aperte in cui riporre memorie, riflessioni, appunti  fluttuanti e tutto quanto mi frulli per la testa. Pensieri caotici in attesa di una più organica, concreta  e forse meno labile dimora cartacea.

 

                                                      OTTOBRE   2017

Cara cornacchia

 

La cornacchia se ne sta lassù, proprio all'estrema sommità della betulla sulla quale si affaccia la finestra del mio salotto. Si guarda intorno e, rivolgendo ogni tanto lo sguardo dalla mia parte, emette un sonoro: « Crrraa» come fosse un richiamo. Pare proprio che ce l'abbia con me, che voglia dirmi qualcosa, che cerchi anche lei qualcuno con cui conversare per non affogare nella noia e nella solitudine.

È domenica, una delle tante. La para influenza m'impedisce di uscire.

Su quali passatempi può contare un giovane ottuagenario, a parte l'eseguire le prescrizioni del medico in fatto di aerosol, sciroppi e compresse secondo una rigorosa  quanto complicata tabella d'assunzione e applicazione?

(Mancherebbero coppettazioni, cataplasmi e suffumigi per fortuna caduti in disuso. Meglio così, fastidi di meno).

Sessant'anni fa questo nonnetto non avrebbe avuto bisogno del medico per un malanno da 37,5 di temperatura. Con un'aspirina l'organismo avrebbe saputo reagire da sé senza troppe ansie e querimonie.

A parte quanto detto, cosa gli resta da fare per riempire il vuoto di giornate noiose e deprimenti?

Cosa escogitare per non pensare che basterebbe una piccola complicazione per finire a "fare terra da pipe" come ironicamente avrebbe commentato suo padre?

Oltre all'antica abitudine di leggere, che la febbricola sonnolenta sconsiglia per la scarsa ricettività neuronale ch'essa induce,  la tecnologia moderna offre ben altre alternative che consentono d'appisolarsi nel bel mezzo dell'avventura senza poi doversene rammaricare: la quasi coetanea radio per chi voglia impegnare le orecchie risparmiando la vista,  la televisione con le centinaia di canali e di programmi per chi pensa che distragga di più l'impegnarle entrambe; internet con la ragnatelica rete mondiale se uno preferisce occupare anche le dita per navigare, destreggiandosi fra gli scogli delle cosiddette bufale: operazione troppo cerebrale e stressante per chi è febbricitante. Forse il ripiegare sulla play station per sfogare in solitaria il proprio agonismo e stimolare i riflessi lasciando riposare  il cervello, potrebbe essere la soluzione, ma anche quella stanca.

Qualche nostalgico brontolone retrostatico, nemico dichiarato della modernità, potrebbe rispolverare con cura la collezione dei modellini d'aereo e di automobiline d'epoca, iniziata con l'adolescenza,

rimasta per decenni inscatolata lassù, sopra l'armadio, riesumando l'antica passione tecnologica, o aggiornare il valore delle proprie collezioni filateliche e numismatiche, giusto per non apparire troppo rinfantilito nell'esibirsi a telecomandare trenini e automobiline di latta anziché di plastica.

Ma c'è la famiglia, ci sono i nipoti con cui giocare, raccontare e inventare fiabe, dirai tu.

Eh no, mia cara cornacchia. C'era una volta la famiglia!

Oggi: «Nonno non ti avvicinare, altrimenti infetti anche loro!».

Bada bene mia cara cornacchia: "infetti". Impara questa parola perché  è significativa.

La considerazione in cui sei tenuto dai giovani d'oggi si esprime così: sei infettante, contaminante, lubrico, per di più infesciante, ossia ingombrante; salvo poi, nel bisogno … Meglio lasciar perdere.

Si torna a credere agli untori, ma guai ricorrere ai vaccini. Gl'imbecilli dicono che provochino l'autismo.

L'autismo è provato che no, ma il loro non uso e la saccenza della sottocultura ha sicuramente causato l'atrofia cerebrale a molti genitori, e, a quanto pare, non c'è laurea che tenga capace di debellare il fenomeno. Proprio come ai tempi degli untori.

«Crrraa, crrraa».

Come dici? È vero, basta crederci come ai miracoli, o al malocchio, è questione di pancia: regno della paura, delle pulsioni meno contrastabili che fanno a pugni con la logica della ragione, sulla quale hanno troppo spesso il sopravvento.

Basta il sospetto che le ditte farmaceutiche ci rosicchino sopra e tutti sono pronti a rinnegare Pasteur per ricorrere alle pozioni dei maghi e alle formule magiche di santoni ed esorcisti.

Cara cornacchia che te ne stai appollaiata sull'estrema cima della betulla di fronte al mio salotto, tu che sei il pennuto più intelligente sulla terra, tu che hai insegnato ai primi umanoidi come  raggiungere il cibo inventandoti e costruendoti per prima degli strumenti primordiali ma efficaci, assai prima ancora che quelli scendessero dagli alberi e imparassero a reggersi ritti, dimmi cosa mi consigli?

«Crrraa, crrraa».

Grazie, ma non è una risposta. Non so che farmene del tuo crrraa.

« Crrraaaa !»

Ho capito: «accendi la TV!».

E va bene, accendo la TV.

Su Rai 3, c'è Geo: un bel   programma, manco fossi stata tu a suggerirmelo. Trasmette un cortometraggio naturalistico di Francesco Petretti.

Non v'è nulla di più corroborante che riaprire gli occhi sulla natura, riscoprire quanto apparteniamo ad essa e quanto sia da imbecilli il credere ch'essa appartenga a noi.

Il riconoscerci come uno dei suoi prodotti ci rilassa, ci rasserena, ci riconduce alla giusta dimensione dell'essere, per questo l'immergersi nella natura è ansiolitico.

L'idea invece che l'uomo ne sia possessore è decisamente ansiogena perché ci rende ingordi, ci mette in competizione per appropriarcene quanto più sia possibile; ci genera la frenesia di dominarla, la smania di piegarla al nostro capriccio, la ferocia di strapparla ad ogni altro utente per farne ciò che pare e piace a noi perché: «Cosa nostra è !..»

«Crrraa, crrraa, crrraa».

Come dici? non sei d'accordo?

Su cosa non sei d'accordo, sulla presunzione che sia cosa nostra?

Hai pienamente ragione perché è questa convinzione che ci autorizza ad abusarne.

La natura, poverina, ogni tanto si stufa, ci dà una sgroppata di ammonimento, ci manda con le chiappe a mollo illudendosi che la lezioncina ci faccia rinsavire e non si rende conto che, per l'uomo, è come quando, bambino, riceveva lo scappellotto dal babbo. Un secondo dopo se n'è già dimenticato.

L'uomo versa fiumi di lacrime, si dispera, supplica, sul momento inveisce se non fa di peggio, ma non passa molto che riprende le vecchie abitudini.

È questo che mi vuoi dire, vero?

«Crrraa».

Che posso farci? Se l'uomo è fatto così un motivo ci sarà. Se capissi a fondo il tuo linguaggio, se potessi penetrare tutte le conoscenze pregresse alla nostra comparsa sul pianeta, quelle esperienze che i tuoi avi ti hanno tramandato dai tempi della Beringia,  forse potrei farmene una ragione.

Cara cornacchia come t'invidio!

Penso all'aurora, al sole che sorgeva, alla natura che si svegliava senza fare rumore, che tu contemplavi ogni mattina da lassù.

Penso al silenzio che per l'uomo è morte, perché l'uomo vive di rumore, nel rumore, per fare rumore, altrimenti uomo non è. Non c'è nulla che faccia paura all'uomo più del silenzio e degli spazi sconfinati.

Sei d'accordo su questo?

So che in certo modo hai anche ragione quando mi dici che i viventi sono distribuiti secondo una catena alimentare, per cui mors tua vita mea e chi sta al livello  superiore si nutre di quello inferiore; che ciascuno delimita il territorio reclamando una nicchia propria che gli garantisca la sopravvivenza; che alzi muri e tracci confini, se non altro a garanzia di un certo equilibrio generale e che la cattiveria, in questo senso, è una necessità, un toccasana, un ossimorico principio biologico correttivo tra eros e thanatos. Mi dici che, da questo punto di vista, i predicatori della "guerra igiene del mondo" non avevano poi tutti i torti, dal momento che al di sopra dell'uomo non esiste un essere che lo usi come merendina, ma non pensi che si debba distinguere cattiveria da cattiveria? se non altro nel modo di esercitarla?

Se può essere giusto che si uccida la preda, ti pare altrettanto giusto che la si uccida per il solo piacere di ucciderla, per capriccio e non per necessità; che la si uccida torturandola o che si uccida in nome di un presunto ideale, se ogni ideale altro non è che un parto della mente umana?

«Crrraa!»

Sei d'accordo o non sei d'accordo?

«Crrraa, crrraa …»

Scusa ma non ti capisco. È dai tempi dell'Eden che abbiamo smesso di intenderci, che i nostri linguaggi hanno preso ciascuno la propria strada, molto prima della storica confusione babilonese.

Sento che la febbre sta salendo, è normale che verso sera la temperatura aumenti. Torno a letto, tra veglia e sonno si medita meglio.

Ciao cornacchia, alla prossima.

Cara Siora Sirò

 

Come si chiamasse veramente non l'ho mai chiesto. Si racconta che un giorno di primavera entrasse nel piccolo emporio di zio Italo con far da generalessa per chiedere alla zia Aida: «Meza onza de cavalieri, una ciopa de pan biscoto, mezo eto de conserva. do sardeloni, sta bosséta de oio de oliva;  e la grasia de dirghe al sior Italo de vegnére a montarme el telaro ciò».

Per chi non avesse dimestichezza col vernacolo di Villarappa la Siora Sirò aveva chiesto alla zia Aida mezza oncia di bachi da seta da coltivare, un pane biscottato, mezz'etto di concentrato di pomodoro, due sarde in salamoia, che le fosse riempito il boccettino d'olio d'oliva e che poi ricordasse a mio zio Italo di andare alla fattoria a montarle il telaio. Sì perché lo zio Italo fabbricava anche pettini per i telai a mano e li montava sui vari monumentali armamentari delle fattorie circostanti.

Se n'era poi andata altezzosa dopo aver pagato in contanti; cosa strabiliante per i tempi e per i luoghi dove tutti comperavano a credito, per pagare (quando pagavano) dopo il raccolto, sempre che l'annata fosse stata buona.

Il negozio era pieno di contadine in attesa d'essere servite, e se è vero, come dicono in Lombardia, che due donne in piazza fanno un mercato di Saronno, figuriamoci sei o sette comari venete in un negozio del contado padovano.

La Siora Sirò era entrata e, senza chiedere permesso a nessuno, s'era fatta servire.

Al cicaleccio, che fino a quel momento era stato assordante ma conviviale, fece seguito un silenzio minaccioso e cupo come prima che scoppi un temporale e gli uccelli spaventati corrano a ripararsi nel folto di siepi e alberi.

Ficcata la spesa nella sporta e pagato sull'unghia, la Sirò s'era avviata all'uscita, ma ci fu chi non seppe attendere che avvesse chiusa la porta alle sue spalle e chiese risentita alle altre: «Chi zela sta sensa creansa?». Chi è questa maleducata?

Fosse per l'umiliazione subita dal gesto della Siora

Sirò di aver osato pagare sfacciatamente in contanti

in un contesto dove il denaro non si sapeva che colore avesse e il commercio era fondato prevalentemente sul baratto; fosse per la prepotenza d'essere passata avanti a tutte, fosse per l'atteggiamento di sprezzante superiorità che ostentava, ci fu chi, stizzita, chiese chi fosse quella donna.

«La ze la serva del Sior Checo ciò, el gastaldo del Sior Conte ciò; uno che parla in cícara e che leze el giornale ciò» se ne uscì la zia Aida. Insomma, la domestica di uno che comanda, al quale il bracciante si deve presentare col cappello in mano e rispondere sempre: «Sior sí, serva sua, el me diga ciò, sirà fato ciò!»

Parlare in cícara significava esprimersi con una misticanza di parole tra il dialetto e l'italiano addomesticato da chi l'italiano non lo aveva mai parlato; un dialetto italianizzato insomma.

Chiarì un'altra sputando veleno: «Cossa zela po, co sta aria da regina Taitù? Na pora nalfabeta come noaltre». Cosa sarà mai con quell'aria da regina Taitù? Una povera analfabeta come noi.

« La ze la mama de la signorina maestra» precisô zia Ida.

Sibilò la Ménega: « Ghío visto Bertilla? La poaréta la ga i bessi ciò!» Avete visto Bertilla?  La poverina ha il denaro!

Non si capiva bene se lo dicesse per disprezzo o per invidia.

«Al fijol del Conte no i ghe manca mona!»  Al figlio del Conte non  mancano!  sentenziò malignamente la Pia sghignazzando.

Concludendo però la frase con  mona:  intercalare alternativo e altrettanto comune al ciò, ma con un significato polisemico, tra cui quello di sostantivo, non certo amorfo come la neutralità del ciò, il che ne orientava l'interpretazione decisamente verso il significato del sostantivo.

Mio cugino Carlo che, entrando per vuotare un cestone di pane appena sfornato nella madia dietro il banco aveva seguito la conversazione, concluse ridendo: «Eh care, la mona la ze na gran musina».

Care mie, la mona è un gran salvadanaio, e il sostantivo mona è facile indovinare cosa indicasse.

Era gradevole quel ciò, quell'intercalare universale che rimbalzava da una bocca all'altra, dal sapore di chiocce e aie, che te lo ritrovavi dappertutto come il prezzemolo in cucina. Quel ciò dei sottintesi, dei sospesi maliziosi che invitava, che insinuava fantasie innocenti, ma quel mona che dichiarava malignità ben individuabili e alludenti alla presunta tresca col figlio del Conte, di cui si vociferava che la maestrina ne fosse il frutto, raggiunse la Siora Sirò sulla soglia del negozio colpendola a tradimento.

Voltatasi di scatto,  con tono risentito ribatté: «Sirò cuel che sirò, ma so sempre la mama dela signorina maestra» come dire: analfabeta e mignotta, ma con una figlia maestra, sono sempre un gradino sopra di voi, e se ne andò col mento all'aria sbattendo la porta.

Era troppo e il termometro dell'ambiente minacciava di salire, infatti la Nena, più focosa delle altre, aveva abbozzato l'inseguimento. Zia Aida, per raffreddare gli animi gridò: «Basta femene, chi toca?» basta donne, a chi tocca?

La campanella di richiamo sovrastante l'ingresso, sollecitata più che mai dall'uscita violenta della Sirò, si agitò a lungo facendo dlindlon, dlindlon, dlindlon. Pareva l'ironico commento finale alla sdegnosa ritirata della servotta e lo sberleffo sonoro diretto alle comari.

 

Cara siora Sirò, sono passati parecchi  decenni ormai e oggi, grazie anche all'impegno di tua figlia maestra, a Villarappa tutti sanno leggere e scrive, e quasi tutti son dottori o si fanno chiamare tali.

Nonostante le invidie e le malignità del prossimo, avevi saputo investire bene i soldi raccolti in quella "musina"; facendo studiare tua figlia agitasti le sonnolente acque dello stagno, ma nessuno di coloro che furono riscattati dall'analfabetismo ti ha mai ringraziato.

 I tempi sono cambiati o forse sembrano cambiati. Comunque nessuno va più a farsi scrivere le lettere dal prete o dal segretario comunale; fattori e braccianti sono scomparsi, i Conti, perso boria e blasone, contano come il due di spade e si confondono coi borghesi, la terra rinselvatichisce e fa spazio alle discariche, all'arido cemento e all'asfalto, mentre la mona non ha mai smesso di far da musina come  allora.

Ho chiesto intorno, ma nessuno si ricorda di te.

Al cimitero non ho trovato una croce o una lapide a testimonianza del tuo passaggio su queste contrade, perché Sirò non era certo il tuo nome. È colpa mia che non lo chiesi mai. L'ultimo aggancio fu mio padre, buonanima,  che ti ricordava ogni tanto mettendoci tutto il suo umorismo e la sua vena canzonatoria, e anche lui, raccontando, ti faceva il verso ridendo: «Sirò cuel che sirò, ma so sempre la mama de la signorina maestra».

Mio padre da quindici anni non c'è più, così tu sei rimasta la siora Sirò.

Scusami se quando vedo qualcuno appollaiarsi sullo scanno, non so perché, mi ricordi te; non è per cattiveria, è ché mi pare che tutto sia rimasto quasi come allora, tranne che si sappia riderci su e … ne ho tanta nostalgia.

Addio Siora Sirò.

Impressioni su: IL SIGNORE DEGLI INGANNI di Zachary Mason

 

Finalmente ho preso in mano IL SIGNORE DEGLI INGANNI di Zachary Mason di cui mi è stato chiesto un parere.

Tecnicamente, dal punto di vista linguistico e letterario (non conoscendo l'inglese) non sono in grado di valutare né l'originale né la qualità della traduzione, il cui linguaggio, nella versione in mio possesso, a volte mi pare banale e lessicalmente povero.

Contenutisticamente invece mi sono posto il problema di come individuare i diversi e possibili piani di lettura, inquadrando il romanzo da due punti di vista diversi:

a) le possibili intenzioni dell'autore

b) le probabili risonanze sul lettore, ossia l'effetto o gli effetti che il romanzo produrrebbe in chi abbia tempo, voglia e curiosità di leggerlo.

Partiamo dalla definizione di romanzo:

Se partiamo dal concetto che per romanzo s'intende la narrazione unitaria ed omogenea di una vicenda in cui uno o più personaggi sono coinvolti nella trama e negli sviluppi entro uno schema strutturato, Romanzo non è, e in questo l'autore fallisce smaccatamente l'obiettivo.

Dal punto di vista del lettore il lavoro si presenta come una serie di racconti slegati fra loro che ruotano attorno alla figura del personaggio di Ulisse, e ai poemi omerici, come tema di una gara quasi trobadorica, ma che non hanno un legame che li unisca in qualcosa di organico se non un tentativo di rifacimento e di reinterpretazione in chiave diversa di quanto ci ha tramandato la tradizione omerica.

L'impatto coi primi capitoli è tendente ad un giudizio negativo: sembrano i racconti narrati dagli anziani in un gruppo di amici raccolti attorno al fuoco di un bivacco in una qualunque sera d'estate. Racconti più o meno fantastici, storielle inventate lì per lì, oppure favolette popolari più o meno deformate e tramandate da generazione a generazione in un contesto agricolo-pastorale d'altri tempi. Non hanno nulla che li leghi all'opera omerica vera e propria se non dei nomi e dei toponimi direi proditoriamente estrapolati.

Intendiamoci, l'autore non ci dà questo contesto scenico come ambientazione esplicita , perciò è solo una proiezione mia di lettore per riuscire a dare unità logica a un insieme di racconti slegati. (farebbe parte di quel "non detto" che lascerebbe alla fantasia del lettore la libertà di colmarne il vuoto intenzionate).

Nei capitoli seguenti non mi pare che Odisseo e gli altri personaggi vengano spogliati delle vesti dell'eroe per indossare gli abiti del comune mortale, come sostiene il presentatore del romanzo nel risvolto di copertina, ma che si situi piuttosto nel filone delle rappresentazioni giullaresche del teatro dei pupi dove i personaggi denunciano pregi, difetti, comportamenti e costumi (non gli abiti) che sono più attuali che arcaici. L'autore mi sembra indeciso, sembra pencolare tra l'intenzione di una rivisitazione omerica in chiave puramente fantastica moderna, l'orrido medioevale e il desiderio di demitizzare gli eroi senza riuscire a centrare nessuno degli obiettivi.

Vengono conservati i pregi e i difetti della sola umanità che, per ragioni genetiche, non può che tramandarsi uguale nei milleni.

L' Odisseo di Omero non è diverso dall'Enea di Virgilio e dal profugo di oggi in lotta coi marosi del Mare Nostrum, ma da come lo rappresenta l'autore in questo romanzo ne è solo la parodia.

Il voler quasi (a giustificazione) derivare questi racconti dai contenuti dei ritrovamenti di Ossirinco sulla storia della Grecia antica (vedi prefazione), mi pare un'operazione di tipo goticizzante medievale, anche solo come spunto d'ispirazione, quando gli autori (anonimato a parte) presentavano i loro scritti non come originali, ma come trascrizione di ritrovamenti di opere altrui scovate e riportate alla luce dai più oscuri e misteriosi recessi.

Senza contare certe grossolane contraddizioni e qui pro quo che non possono essere passate per refusi e che denunciano invece imperdonabile superficialità e trascuratezza (una per tutte a pag 126 una Penelope scambiata non si sa come e perché con Elena)

Questo lavoro non è per niente coinvolgente e la risonanza che provo è di totale indifferenza. A volte mi pare di percepire il senso del nonsenso di quando lavoravo in manicomio, ma poi vi scopro una farneticazione non spontanea, ma costruita cerebroticamente e pertanto falsa; una artificiosa e fredda destrutturazione della logica, una disordinata frantumazione ed un rimescolamento casuale di fatti e tempi slegati fra loro. Insomma un patchwork malriuscito.

Mi sono chiesto cosa l'autore intendesse proporre con questo presunto romanzo: una composizione metapostmodernista? Se sia questo però non lo dice né lo fa capire e non ha senso lasciare sempre e il tutto nell'ambito del "non detto" per non sbilanciarsi e paura di compromettersi. Se così fosse, dove sarebbe il coraggio dell'innovatore, ammesso che d'innovazione si tratti e non di regressione?

Se l'idea di progresso sta nel camminare sempre in avanti, anche chi fa dietrofront continua a camminare in avanti, ma in concreto regredisce pur avendo l'illusione di progredire.

Non ho ancora finito di leggere, ma più procedo e più mi convinco di essere nel giusto.

Mi viene la tentazione di chiudere il libro e di restituirlo, ma nessun libro va lasciato a metà, se non altro per rispetto di chi ha fatto la fatica di scriverlo e di chi ha creduto in lui e lo ha sponsorizzato, al di là di ogni giudizio qualitativo e di merito.

Non è detto che qualcuno non si trovi in sintonia con l'autore e che non trovi di che specchiarsi in lui. In fondo, più che l'autore, sono i lettori a fare di un libro il libro.

Chiuso il libro sull'ultima pagina, sulla quale ho chiuso anche ogni altra speranza di redenzione, mi sovviene l'Iliade del Monti; sorrido e penso: «Che magnifico falso d'autore quello!»

 

C.A.B.

Libero arbitrio e destino

Cos'è il destino se non la risultante dell'interferenza delle volontà altrui e del concomitante divenire della realtà in cui si è immersi?

Risultante che condiziona, determina e trascina verso un traguardo non perseguito dalla volontà dell'individuo, che convoglia a volte assecondando, altre contrastando la sua intenzione , trascinando verso sbocchi a volte prevedibili e a volte no, comunque sempre e in ogni caso subiti.

 

LUGLIO 2018

Impressioni su:  BIANCO SU NERO di Rubén Gallego

Lo spirito è lo stesso che anima "Le Mie  Prigioni" del Pellico e mi pare che anche l'impatto sul lettore sia uguale.

Rubén descrive il suo "carcere" fisico e sociale (l'orfanotrofio) i suoi carcerieri, le istituzioni in cui è costretto a vivere con falsa bonomia. Descrive con velata ironia l'ipocrisia di un sistema e per farlo non ricorre a giudizi e commenti, gli basta la semplice verità.

 

                                                      AGOSTO 2019

Il gabbiano   

 

C’è sempre una palude solitaria e silenziosa oltre il deserto.

C’è sempre un canneto solitario nella palude e un viavai di pesci ignari nel canneto. C’è sempre un murmure sciacquio nel silenzio della palude e un palo solitario piantato in mezzo all’acqua. C’è sempre un gabbiano muto e solo, immobile, in cima al palo nella palude: un gabbiano che guarda lontano, che fissa un punto all’orizzonte, un punto inconoscibile, discreto, invisibile ma ineludibile: l’ETERNITÀ.

 

                                                      AGOSTO 2020

ORTOFONICHE E TORTOFONICHE

(Introduzione)

Come il battito di una farfalla…

 

Proprio come la metafora di Edward Lorenz.

Basta un nonnulla per scatenare una rivoluzione, un cataclisma, un terremoto, uno tsunami: il battito d’ali di una farfalla all’altro capo del mondo.

Me ne stavo seduto all’ombra del mio faggio boccheggiando per la calura. Brogliaccio sulle ginocchia, dita che tormentavano la penna; gocce di sudore veicolate dal naso cadevano sul foglio usurpando il territorio dell’inchiostro. Due cavolaie s’inseguivano svolazzando sul cespuglio di gelsomino.

Leggevo e rileggevo distrattamente la prima stesura di Profezia, una breve poesia ermetica che esprimeva abbastanza lo stato confusionale e la noia da calura in cui ero immerso.

Volevo inventarmi qualcosa di nuovo, ma mi sentivo molto Oblomov e mi misi a giocare distrattamente con le parole.

Idee, immagini sconclusionate, pensieri totalmente scollegati tra loro facevano da rumore di fondo nel mio cervello in un gioco caotico di libere associazioni.

Le mani andavano per conto loro dissezionando le parole.

Ero arrabbiato con la mia lingua, strumento vecchio, rigido, indocile.

Che cos’è una lingua se non un insieme di suoni articolati?

Una catena di suoni raggruppati in parole, ciascuna delle quali racchiude un concetto, proprio come un abito che riveste il corpo che contiene.

Ostile all’ecclettismo degli idiomi, che tanto va di moda al giorno d’oggi, mi venne l’idea di giuocare con le lettere come fanno i bambini con le tessere del lego: smontano e rimontano, scombinano e ricombinano usando sempre le stesse tessere e ogni volta danno vita ad oggetti diversi, a forme nuove.

Pensai: tutto sommato non farei niete di diverso di quel che fa la natura stessa col processo evolutivo, imitata dai moderni scienziati che sezionano il DNA, sottraendo o reinnestandone dei frammenti nella sequenza dove meglio credono, creando ad arte quelle mutazioni genetiche che madre natura avrebbe magari scartato a priori o che avrebbe impiegato milioni di anni a creare.

Nuove creature che solo l’elasticità all’adattamento ambientale renderà vincenti o perdenti nella lotta per la sopravvivenza.

È opinione diffusa che la lingua italiana comprenda circa 270.000 lessemi che con le coniugazioni, le declinazioni, i generi, i numeri e le accezioni, secondo il Lorenzetti, producono la bellezza di oltre 2.000.000 parole o vocaboli diversi, composti da una o più sillabe, ciascuna delle quali altro non è che un suono pronunciabile, semplice o composto da due o più lettere: i fonemi.

Alla base di tutto c’è un alfabeto che nella nostra lingua, dove non sia contaminata da innesti stranieri, è di 21 lettere: i grafemi che ci consentono di trasferire l’orale in scrittura, ossia di convertire l’udibile in visibile.

Le sillabe, raggruppate in numero vario, formano le parole, la più lunga delle quali, per l’Italiano, sarebbe: “precipitevolissimevolmente”, capace di costituire da sola un intero endecasillabo.

Le lettere più importanti dell’intero alfabeto, le regine, sono solo le 5 vocali perché, senza di esse, le 16 consonanti sarebbero impronunciabili nel linguaggio orale (consonanti= suonanti con).

Ho scritto sopra che la parola, o vocabolo, altro non è che l’abito di un concetto, ma, proprio come ogni abito segue le mode e i capricci degli stilisti, così accade per le parole. Nelle lingue straniere grafemi e fonemi non corrispondono a quelli della lingua italiana e così dicasi per le parole. Pensiamo per esempio a cosa, che in Francese è chose e in Inglese thing. Per non parlare di Cinese, Giapponese, Iddish e chi più ne ha più ne metta.

Se la diversificazione e l’evoluzione delle lingue è del tutto un processo fisiologico nella storia dei popoli e delle culture, è possibile riprodurla artificiamente come forma d’arte?

Io ci ho provato destrutturando le parole, dando un abito diverso ai concetti che rappresentano mantenendone il contenuto.

Come?

Usando le vocali come fossero tessere di lego, da togliere e rimettere secondo un determinato criterio:

1°conservando l’unità dell’opera

2°togliendo le vocali esistenti e riempiendone i vuoti in modo seriale con sequenze di: a, e, i, o, u, a, e, i, o, u…  e via di seguito.

In poesia il prodotto ottenuto acquista una musicalità nuova ed intrigante con l’aggiunta di una nota di mistero che lo rende enigmatico, ma reversibile.

 

Premesse al destrutturalismo

 

  1. L’insieme delle lingue è paragonabile a un “guardarobe” fonico.

  2. La parola è un insieme di fonemi (suoni articolati) che diventano “abito” che veste un concetto.

  3. Parole di lingue diverse che indicano lo stesso “oggetto-concetto” (es.: casa - maison – domus) altro non sono che abiti diversi per rivestire lo stesso contenuto, né più né meno delle collezioni di abiti con cui le nostre signore cambiano il “look”.

 

Tutto questo però fa parte di un’evoluzione fisiologica dei linguaggi e quindi della loro mutazione naturale inconsapevole da cui prende le mosse il destrutturalismo e da cui trae senso, ma da cui differisce perché ne è UNA MUTAZIONE STILISTICA E QUINDI ESTETICA, CONSAPEVOLMENTE VOLUTA E RICERCATA, tecnicamente strutturata e quindi rientrante a buon diritto nell’insieme delle forme artistiche contemporanee.

                                                                      25 APRILE 2023

                                                               ALL’OMBRA DELL’ARTICOLO 21 DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

                                                                               Riflessioni a margine della dicotomia nell’ “essere”

 

                                                                                                                                                                                                 … maschio e femmina li creò…

                                                                                                                                                                                                                                  Genesi 1,27

 

                                                                                                                                                                      ( Sì, Dio li creò diversi, profondamente diversi

                                                                                                                                                                      se li guardi di fronte, ma se li guardi da dietro

                                                                                                                                                                           potresti confonderli, perché… sono uguali).

 

25 aprile 1945 data storica per tutti gli Italiani, per chi celebrò la vittoria e per chi pianse la sconfitta; per l’alba di una Repubblica e il tramonto di una Monarchia.

Nero e bianco indissolubili, mescolantisi in un unico grigiore dominante seppur con le mille sfumature.

 

Viaggiavo in una scatola di latta, anzi di plastica perché oggigiorno la plastica ha invaso ogni angolo del nostro esistere, perfino le budella, introdottavisi attraverso i vari animali che direttamente o indirettamente se ne cibano e che ci fanno da cibo.

Viaggiavo in macchina, dicevo, quando, voltato l’angolo di una strada cittadina, l’occhio mi cadde sulla parete di una casa vecchia sì, ma non rudere e per di più con evidenti segni d’essere tutt’ora abitata.

Quella scritta d’altri tempi non poteva non balzarmi all’occhio.

 

“Credere, obbedire, combattere”…

 

La mano di calce che l’aveva occultata nel lontano 1945 se n’era andata, sfarinata dal tempo e dilavata dalle intemperie.

 

Hanno ragione gli archeologi: “il tempo nasconde e il tempo disvela”.

 

Ero bambino allora, ma la guerra me la ricordo e anche la figura del Duce nella propaganda fascista dei Film Luce che anticipavano la proiezione delle comiche di Ollio e Stanlio o i lungometraggi strappalacrime della Ferida e del Valenti, interdetti a noi fanciulli, dovendosi preservare il più a lungo possibile la nostra castità.

 

E la memoria divagò sulle note di una canzone:

“Duce, Duce chi non saprà morir ?– il giuramento chi mai rinnegherà – snuda la spada quando tu lo vuoi, - gagliardetti al vento tutti verremo a te…”

La cantavano tutti, la cantavamo tutti… ma proprio tutti tranne i fuoriusciti auto esiliatisi e i circa 10.000 confinati tra i quali gli ospiti di Ventotene.

(Avevano  liberamente e deliberatamente scelto di essere spergiuri; qui sta il paradosso libertario: avevano disobbedito)

Acqua passata.

 

Rimuginai la scritta quasi ad alta voce e sorrisi pensando agl’Italiani di oggi, antifascisti dichiarati a volte fino al fanatismo, freudiani in tutto e per tutto nella smania edipica di uccidere i loro padri.

Ma c’è un “però”, una verità che viene repressa più che taciuta: la verità che il mosto, fermentando, trasuda come “vino nuovo in una botte vecchia e mal cerchiata” direbbe il Manzoni; e il  mosto del nazionalismo, del revanscismo fascista, creduto morto, trasuda.

 

Prima o poi la verità va riconosciuta e ammessa “senza accavallarsela sul naso” direbbe il Pascoli, come sembrano fare certi odierni eredi dell’ANPI, che, per ragioni anagrafiche, del passato hanno il solo ricordo del “sentito dire” che, per quanto sia vero, è e rimane pur sempre di parte.

 

Lo spartiacque del volta gabbana ha come data storica l’8 settembre del ‘43

 

L’Arlecchino servo di due padroni è una commedia italiana no?

 

Verità riconosciuta e ammessa  così, come semplice e onesta constatazione che una generazione di mezzo come la mia dovrebbe saper fare senza odio né amore e soprattutto senza rimpianti.

 

“Credere, obbedire, combattere!” Era uno dei motti mussoliniani scritti a grandi caratteri sulle pareti delle case prospicienti le strade di transito…

Il Duce è stato giustiziato sommariamente a Dongo, l’Impero fasciosavoiardo è abortito nel’41, la guerra è finita da un pezzo e l’Italia è una Repubblica ormai da quasi un secolo, ma la scritta persiste indelebile sul muro sotto la grondaia di quella vecchia casa ad angolo del crocevia sulla strada maestra.

 

Monito?..

Chissà!

 

Credere?..

sì, ma con riserva.

 

La gabbana non cresce sulla pelle: segue anch’essa la moda e s’anche qualcuno le è così affezionato da non volerla o poterla dismettere, quando è vecchia e lisa dovrà comunque essere sostituita.

 

Obbedire?..

 fino a un certo punto quando e dove conviene;

 

Combattere ?..

possibilmente da imboscati e quando proprio si è costretti, perché la pelle è una e buttarla alle ortiche sfacciatamente dispiace a tutti.

 

Sono i taciti sottintesi a quella scritta; lo è stato, lo è e lo sarà sempre; così quando la vecchia gabbana diventò una pericolosa etichetta, gli Italiani se la tolsero più da renitenti alla chiamata  che da irredentisti.

A parte i “Puri di cuore “ l’irredentismo di massa nacque strada facendo perché costretti da un invasore che non scherzava affatto.

Inneggiarono in massa alla libertà dimenticando che vent’anni prima avevano inneggiato alla dittatura quasi all’unisono con lo stesso entusiasmo.

Libertà di tornare ad obbedire a divieti di nuovi padroni: che fossero nostrani, che avessero la bandiera a stelle e strisce o con la falce e martello poco importava. Sempre di “padroni” liberamente (!?!) scelti si è trattato sia nel 1924 che dopo.

 

“Sì ma…”: ecco il “Credo” di ogni Italiano vero con un DNA autentico che si rispetti.

 

Ammetto che questo imprinting non sia ufficialmente ammesso né riconosciuto, perché la retorica non lo consente, il bon ton nemmeno e l’orgoglio per niente del tutto. Ne va della dignità di un Popolo che, sotto sotto, si culla tutt’ora nelle glorie dell’antico impero, come le vecchie e decrepite signore decadute della impolverata nobiltà si nutrono di fatui ricordi.

D’altra parte, se ci guardiamo intorno, gli altri non sono da meno: vedi i Francesi con la loro “grandeur” retaggio Carolingio; i Trampiani d’oltre oceano crogiolantisi nel culto dell’arroganza del West, gli anglicani della brexit nella nostalgia del colonialismo anglosassone o I Russi putiniani rimpiangenti l’URSS o gli Zar.

Ma che diavolo sto dicendo? Siamo nell’era delle democrazie e della globalizzazione o no?

 

Che novità è mai?..

Il dubbio:

che si voglia forse correre la maratona e competere per la Leadership?

 

Sissignori, il marchio sovranista con sfumature colonialiste (oniricamente  e nostalgicamente inteso), se non proprio imperialiste, rimane a lungo come tatuato sotto la pelle dell’Italiano (ma non solo della sua) e riemerge come quella scritta obsoleta sul muro della vecchia casa, che persiste incancellata e indelebile come dimenticata.

 

“Tutto sbagliato, tutto da rifare” mi ammonirebbe Gino Bartali se fosse vivo e mi stesse ascoltando,  perché l’immagine va salvata in nome della dignità di un popolo. Cionondimeno la verità resta quella che è, anche se tenuta accuratamente nascosta per salvare la faccia.

L’ammetterlo o meno è una questione di entità d’orgoglio che, si badi bene, è un difetto non una qualità, anche se, proprio per questo, paradossalmente è vissuto come pregio.

Che l’italiano, sia un popolo peggiore degli altri proprio non lo credo ma solo un tantino diverso come è giusto che sia, come la biodiversità lo richiede in tutto.

Norimberga ha scoperto l’esistenza di un reato che quando i fatti avvennero  non c’era: il genocidio di cui anche il Fascismo si è abbondantemente macchiato.

È mutata la Storia, la tecnologia, la conoscenza, la scienza, la giurisprudenza; sono cambiate le ideologie, ma non la realtà.

L’essere umano è sempre lo stesso: singolarmente diverso l’uno dall’altro, qualunque colore abbia la sua pelle, in qualsiasi contesto sociale si organizzi e sotto ogni qual cielo veda la luce, ma comportamentalmente immutato e sempre uguale .

 

Allora bando all’ipocrisia di chi si crede migliore per vantare il diritto al podio.

Il sovranismo pare riprendere quota dovunque, non solo in Italia, in alternanza alle attuali democrazie o presunte tali; come il fascismo, rigurgito dell’irredentismo, fece in passato. Corsi e ricorsi storici sentenzierebbe il Vico, quindi similitudini del: niente di nuovo sotto il sole.

Le avvisaglie ci sono e non serve fare gli struzzi.

 

Quando finirà la Commedia dell’arte?

 

Qualsiasi cosa riservi il futuro, a scanso di equivoci, ricordiamoci che l’uomo è e rimane la “belva”, il “Caino”, l’animale senza rivali al vertice della biodiversità e della catena alimentare, l’unico essere senz’altri competitori che se stesso nell’equilibrio biologico, qualunque sia l’ordine sociale entro cui viva e operi, il distintivo che ostenti all’occhiello, la religione o l’ideologia professata, l’ignoranza o la cultura di cui si vanti, la povertà o la ricchezza in cui sguazzi, perché ferocia e cattiveria (difetti o qualità dipende dal punto di vista) sono prodotti di pancia affiancati e raffinati semmai dall’intelletto e sempre meglio serviti dal progresso tecnologico, ma non frutti della ragione, e, purtroppo,  gli sono connaturati.

 

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