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INTERVISTA  ALL'AUTORE DURANTE LA PRESENTAZIONE DI "VIOLINI INFUOCATI" A MOLFETTA (BA) 

 

1) domanda:

*La poesia riflette il poeta?

**Cosa caratterizza queste poesie?

 

Risposte:

* Sì

**L' "ESSERE"

 

2) domanda:

*Quale poesia celebre vorreste avere scritto e perché?

 

Risposta:

* Se riferito alla produzione altrui (e credo valga per chiunque) la poesia dantesca, perchè a tutt'oggi non v'è nulla di più sublime e universale.

Se riferito alla mia produzione, rispondo con una contro domanda provocatoria: "Quale dei vostri figli vorreste diventasse celebre?"

 

3) domanda:

*La scrittura e la poesia, da dove nasce l'ispirazione per questi versi

**Nascono prima le parole o i pensieri?

 

Risposte:

*La scrittura e la poesia sono la risposta spontanea agli stimoli della realtà sia esogena che endogena, dell'esocosmo come dell'endocosmo.

È il modo in cui il poeta risponde a se stesso,alle percezioni,

ai sentimenti, alle emozioni. La risposta intuitiva attraverso il gioco inconscio delle libere associazioni ch'egli ripropone al lettore. L'elaborazione razionale finale è solo tecnica di limatura.

 

**Non esiste un cosa prima e cosa dopo. L'origine dell'input non ha una fonte definita: giunge di solito improvvisa ed inattesa da qualsiasi direzione.

 

4) domanda:

*voi poeti cosa vi sentite di suggerire a chi vorrebbe debuttare come poeta, ma è ancora indeciso?

 

Risposta:

*Aprire gli occhi al mondo, chiuderli alla superficialità e alla tentazione del successo suggerito dall'omologazione che spinge a rifugiarsi  nel "Così fan tutti" e tuffarsi invece   "sconsideratamente" nell'abisso del profondo "Se stesso". Esprimere l'ESSERE non il VOLER ESSERE.

 

5) domanda:

*Il poeta oggi: come si potrebbero attrarre sempre più giovani alla letteratura e al mondo della poesia?

 

Risposta:

*Riequilibrando l'insegnamento, sì che l'indirizzo letterario torni ad avere pari dignità con quello scientifico, perché tutto può essere oggetto di poesia, basta saperlo fare.

In quanto a saperlo fare basti ricordare l'opinione di Jacobson, secondo il quale: "...la forma è importante quanto il contenuto   (che definisce)... la poesia è fusione di significante e significato, forma e contenuto (che sostiene) ...in poesia le parole hanno valore non tanto (io sostituirei più correttamente quel Tanto" con solo) per il contenuto che esprimono, ma per l'armonia, il suono che generano"

 

 

Vorrei concludere con un'osservazione personale extra questionario: la raccomandazione a non sottovalutare l'importanza dello strumento: la parola, perché essa è strumento e materia, mezzo , oggetto e veicolo, non solo di concetti, ma anche di sentimenti ed emozioni.

Non a tutti è concessa la grazia d'essere poeti, perché poeti si nasce per cui, ritenendo il consiglio comune al sentire  d'ogni poeta,  concludo con gli ultimi quattro versi della satira di Trilussa. "L'eguaglianza"...

"...Se ti senti la forza necessaria

spalanca l'ale e viettene per aria;

se nun t'abbasta l'anima de fallo,

io seguito a fa l'aquila e tu er gallo."

 
PRESENTAZIONE DE: "I NOTTURNI DI RALCO" C/O LA BIBLIOTECA COMUNALE DI DRUOGNO  in Val Vigezzo (VCO)
 
La narrazione, apparentemente scoordinata, segue il percorso delle riflessioni di un infermiere durante i momenti di pausa,  nella fase del servizio notturno, in cui il silenzio, la solitudine e il rallentamento delle attività consentono una più serena e attenta riflessione sul significato di quel che si fa. Riflessioni abbandonate di proposito al gioco delle libere associazioni, gioco che si dipana in un contesto altrettanto ben focalizzato che è la vita nell'ospedale psichiatrico, osservata da diverse angolazioni: dalla vecchia concezione ghettizzante e di tipo carcerario, alla nuova concezione di Franco Basaglia: << Il matto da slegare >>. La narrazione vuole porre l'accento su questo passaggio dal vecchio al nuovo, vuole evidenziare il diritto ed il rovescio delle due medaglie, visti dall'interno con l'occhio dell'operatore che vede e vive la realtà nella sua genesi spontanea, non nella deformazione mediatica presentata al pubblico per provocare una risonanza emotiva voluta dal regista per lo scopo che il committente vuole realizzare. Fenomeni che inducono a credere che il cambiare significhi sempre un progresso verso il meglio: demolire il vecchio idolo per costruirne uno nuovo più bello e accattivante. Si vuole di proposito far notare che ogni medaglia  o moneta hanno un diritto ed un rovescio connaturati a tal punto che l'eliminazione di qualunque delle due facciate implica la soppressione del tutto. Nell'Universo non esiste un positivo senza il suo negativo perché solo nella loro dinamica si dipana il divenire.
 

PRESENTAZIONE C/O LA BIBLIOTECA DI CASORATE SEMPIONE (VA) A cura di:  Marta  Sarti
 
Il titolo è già un'introduzione al romanzo:
i notturni
La notte è la parte del giorno più propizia alle riflessioni e qui di riflessioni si tratta: l'intero impianto narrativo si regge sul pensiero del protagonista, Ralco, infermiere psichiatrico che trova nel ritmo rallentato dei turni di notte spazi vuoti in cui lasciare vagare la  mente tra ricordi e mille interrogativi sul significato della propria esistenza.
Non lasciamoci ingannare dall'incipit del romanzo, che, presentando il protagonista alla terza persona, fa pensare ad un narratore esterno.
Alla seconda pagina abbiamo il sospetto che il punto di vista del narratore-autore si identifichi con quello del protagonista. c'è un passare dal pensiero riferito attraverso il legame sintattico "si giustificò pensando ...",  "e riandò col pensiero ..." alla riflessione diretta, non riportata dalla voce esterna, secondo la tecnica del discorso indiretto libero.
Se ritorniamo al titolo, ci accorgiamo che Ralco è l'anagramma di Carlo.
Le riflessioni del protagonista sono dunque le riflessioni dell'autore su tutta la sua vita, prevalentemente muovono dall'esperienza di infermiere psichiatrico all'ospedale di Mendrisio, con tutte le problematiche vissute e affrontate  in prima persona nel rapporto con i pazienti, con i colleghi, con i medici, insieme ad inquietanti interrogativi sulle terapie adottate, sul rapporto malattia-normalità, ma anche riflessioni e interrogativi sul significato dell'esistenza, sulla incapacità della mente umana di penetrare il trascendente per avere certezze assolute, sul rapporto libero arbitrio e determinismo e ancora: memorie del passato, dell'infanzia, delle persone care portate via dalla guerra o dalla malattia, del borgo, evocato attraverso i sensi ... profumi, colori, rumori.
Questo andare avanti e indietro della mente sembra voler fare il punto della situazione, tirare le fila di una esistenza, forse per capire quali condizionamenti ne abbiano segnato la direzione.

RECENSIONE DI: JUVENILIA A cura di Massimo Barile

Il libro dal titolo "Juvenilia", di Carlo Antonio Bertolo, è diviso in due parti ben distinte con appendice finale che include alcuni epigrammi.
Nella prima parte troviamo la silloge di poesie che comprende numerose composizioni, reputate tra le migliori, che l'Autore ha scritto a partire dal 1955, ed ora ha raccolto in questa antologia dopo aver selezionato ciò che rappresentava, nel miglior modo possibile, il suo sentire lirico e la sua visione esistenziale, nonché la sua percezione della realtà odierna...
...Nella seconda parte, dal tritolo "Contropelo", sono raccolte alcune satire che, in maggior parte, sono state scritte tra il 1993 e il 1998. In questa sezione ritroviamo la volontà di Carlo Antonio Bertolo di esprimere una critica sociale nei confronti della realtà odierna, passando dal divertissement alla satira più dura ed aspra, mantenendo sempre un velo d'ironia anche nelle considerazioni cosparse da vetriolo...
Nella parte finale, ritroviamo alcuni epigrammi che chiudono il testo e rappresentano, con fulminee illuminazioni e velenose frecciate, ironiche analisi sulla condizione umana, sulle visioni della vita quotidiana e della società in generale, con rapidi sguardi satirici alla giustizia, alla politica, all'informazione e al lento dissolvimento della morale, cavalcando l'onda dell'attuale critica agli italici vizi e pregiudizi.

Dalla prefazione di Massimo Barile.

RECENSIONE DI " JUVENILIA " (di Simona Introcaso)
 
Ogni poesia andrebbe analizzata per sé ma in una visione generale viene istintivo percepire una vena di tristezza
e malinconia che permea l'intera raccolta ed il vagheggiamento dell'età giovanile come luogo di possibilità infinite contro la condizione "senile" vista come ineluttabile preludio al nulla del pst-mortem.
Le poesie più "giovani"  - ovvero quelle scritte negli anni giovanili - sono liriche più serene e le stesse tematiche
sono segno di una apertura all'esterno: la NATURA, I PAESAGGI, mentre quelle più tarde sono analisi della condizione umana in cui l'uomo esce sempre sconfitto!
Sembra evincersi l'idea che solo nella natura, nella sua contemplazione, nel suo fondersi in essa l'uomo possa trovare pace ai suoi dolori, alle sue ansie ed ai suoi crucci.
Tra le mie preferite:
 
* All'Amico      :       dove il senso dell'amicizia travalica la morte ed il distacco
 
* Nomadi         :       con la forza di entrare in CON - FUSIONE con quel mondo
 
* Idillio a sera :       la chiusa su gioventù e follia è indicibilmente bella
 
* L'orma           :       nella poesia emerge il tratto di un'anima (la Merini) sofferente ma non folle. Emerge  
                                  anche una profonda conoscenza e consonanza emotiva con il mondo della follia e delle
                                  malattie mentali, vissute come una condizione umana e non come un mondo di cui aver  
                                  paura.
 
Il linguaggio giovanile è più ricercato ma anche, in apparenza, un esercizio "scolastico" di utilizzo di parole insolite e letterarie, quasi ad esprimere e dimostrare le proprie conoscenze; le liriche più mature invece, pur mantenendo un lessico ricercato, danno la sensazione che l'autore possegga davvero e abitualmente utilizzi quei termini meno consueti.
                                                                                                                                         SIMO

 

"CHRONOS"  Prefazione di Massimo Barile

 

Nella sua presentazione al libro, Carlo Antonio Bertolo offre una panoramica del suo modo di "intendere" il significato più profondo del desiderio di esprimere le proprie emozioni, di riportare le pulsioni,  di avvolgere le manifestazioni dell'esistenza con il velo aureo della poesia: dalle sue riflessioni si evince chiaramente che non ricerca consenso da parte di alcuno, che poco contano eventuali giudizi da parte di critici letterari che possono riscontrare valenza positiva o carenza negativa.

Quindi, con onestà intellettuale, ho letto le sue poesie con l'intenzione di capire ciò che l'Autore "vuole comunicare". Con passione mi sono addentrato nei componimenti di Carlo Antonio Bertolo e cercherò di "esprimere al meglio" il suo intendimento, strettamente collegato al cosmo poetico che lo accompagna.

Io sono un fautore della necessità che un autore, sia egli più vicino alla narrativa o alla poesia poco importa, debba avere la "consapevolezza di sé": muoversi con discrezione, tenere lontana l'arroganza e scrivere avendo sempre presente la substantia.

La narrazione poetica è importante. Raccontare la propria vita, miscellanea di esperienze ed emozioni, in prosa  o in poesia, si può fare in molti modi. Ciò che conta è essere onesti e genuini.

Ecco perché mi fa piacere che Carlo Antonio Bertolo si definisca"estroso"  e che rifugga dall'essere "ambizioso ed altezzoso".

La silloge di poesie "Chronos"  è quindi specchio fedele dell'animus del poeta: il desiderio di riportare, sic et simpliciter, il suo universo emozionale, le contraddizioni dell'esistere, il senso d'inquietudine che può assalire, la constatazione che il Tempo scorre inesorabile ed è fondamentale cercare di salvare ciò che merita essere salvato.

Il fluire inesorabile del tempo accompagna l'Uomo,  il mito di Crono che divora i suoi figli, come a ristabilire l'ordine fondamentale delle cose, l'immodificabile ciclo della vita che nessuno può fermare: ecco allora che "il tempo compone la vita"  e, Carlo Antonio Bertòlo , sottolinea, chiaramente,  come le tessere del mosaico esistenziale vengano scomposte e, poi, ricomposte, in un continuo alternarsi di momenti vitali, tentando di combattere il "grigiore della vita"  e di preservare i "ricordi" che assumono un ruolo fondamentale.

Carlo Antonio Bertòlo porta con sé la forte consapevolezza del significato autentico del "vivere" e, con la sua poesia, tende a innalzare a dimensione più elevata "la fiaba del tempo nascosta nel cuore" : la presenza del sentimento d'amore è colonna portante nella vita dell'Uomo che, altrimenti,  sarebbe "nulla" : involucro che si muove in una vita arida, tra mille tribolazioni e navigazioni, inseguendo "rotte"  che condurranno a sogni infranti, a illusioni e speranze tradite.

Ecco allora che, attraverso le poesie di Carlo Antonio Bertòlo, ci si può muovere tra le  "galassie", sognare un passaggio nelle "grotte delle fate"  che conduca ad altra dimensione, inoltrarsi in un'atmosfera di sospensione, come a "cercar di svelare il mistero"  e lambire i confini dell'Universo pur restando nella propria mente.

La parola di Carlo Antonio Bertòlo non è mai banale ma tende ad una ricercatezza espressiva con numerosi riferimenti classici e mitologici, come a scandagliare nel Tempo concesso all'Uomo tutto ciò che è servito per attenuare l "senso di smarrimento"  davanti all'inconoscibile.

Come viandante in questa vita terrena, Carlo Antonio Bertòlo desidera "coltivare la poesia". con un "lavoro da certosino". e scandagliare il suo cuore, seguendo la necessità di raccontare il proprio vissuto e considerare la vita come un "dono" : possibilità di lasciare una traccia di sé, oltre il Tempo che scandisce la finitezza dell'Uomo.

In ultimo , v'è da ricordare che la seconda sezione del libro, dal titolo "Lana caprina" , comprende alcune satire, aforismi, filippiche ed epigrammi: lascio al lettore la curiosità di scoprirvi fulminee illuminazioni sulla vita.

 

Massimo Barile

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DIETRO L'ULTIMO SOLE ,  Prefazione di Massimo Barile

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La poesia di Carlo Antonio Bertòlo nasce nella totale armonia di emozioni e sentimenti, che si intersecano in una miscela lirica, diventando vibrante espressione del mondo interiore e limpida fonte d'una visione che scruta nel profondo della trama della vita.

Con un forte e consapevole recupero memoriale, Carlo Antonio Bertòlo riporta in superficie il ricordo dei suoi natali, nella "povertà del borgo natio", come a rimpiangere il "soffitto con travi mal tagliate"  ed il "pavimento umido" , e poi, quel vivere fra "umili campi". "quattro casolari"  il "ponte rosso"  ed il "fiumicello" , quasi a pesar quei ricordi come un "fardello / rimasto testimone d'un passato , /  d'un mondo dove nulla era sprecato / e la pietà il più utile gioiello" : ed, infine, ecco emergere il vero motivo di tale visitazione, che si incarna in una critica della "civiltà del niente / che tutto getta, annulla e incenerisce, / che svuota la memoria d'ogni mente" , fino a verificare che è questo il vero

dramma.

Carlo Antonio Bertòlo ha piena consapevolezza che il tempo scorre inesorabile e non si perde in vane nostalgie del tempo passato perché sa bene che non tornerà, piuttosto, rivolge, liricamente, la sua tensione a ciò che riserverà il futuro e, fortemente, desidera sentire ancora il pensiero "vagare lontano" , oltrepassare le vette d'un "magico arcano" , come a confrontarsi con i riflessi della vita, quasi a perdersi in contemplazione con la volontà di gridare la sua  " grande passsione / per questa vita che ancora"  lo seduce e lo ammalia con le sue meraviglie.

La sua figura di uomo immerso "tra i libri nel suo studio" , solitario ricercatore nel "navigar della vita" ,in cerca del mistero che affascina l'anima; poeta che recupera le tessere dei ricordi e, rima su rima, crea la trama della sua poesia per "valicare il confine"  d'un oscuro sentiero, dopo il periplo della vita, dopoaver superato il senso di vuoto, i "giorni freddi d'amore" , i tormenti e le inevitabili ferite.

È indubbia la sua volontà di preservare la "meraviglia della poesia" , come a poter scorgere in essa l'infinito, il sogno che pervade il cuore, la fonte luminosa che permette di conservare lo "stupore del fanciullo" .

La versificazione ritma i tempi, curando le ferite, scrutando il mistero rappresentato dalla vita, in un continuo dialogo interiore

 ammantato e pervaso da forte sensibilità e profondo sentimento religioso.

Carlo Antonio Bertòlo plasma la sua poesia, trama e ordito, del personale universo d'un poeta che vivemsulla propria pele la condizione di limpida anima in ardimentoso cuore: rifuggendo d'immergersi nell'oblio dell'infernale fiume Lete.

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"Un cenno di apprezzamento anche per le belle foto di Carmen Bertòlo Caletti, che rappresentano la perfetta comunione tra poesia e immagine in una simbiosi davvero meritevole".

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Massimo Barile

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VIOLINI INFUOCATI  Prefazione di Alessandro Lattarulo

 

L'assurdità dello sforzo poetico, la sua erasmiana "follia" , risiede nella volontà di affrancarsi dal linguaggio della comunicazione e cionondimeno comunicare qualcosa. In ogni lirica può rintracciarsi, quale elemento imprescindibile del proprio caratterizzarsi come tale, il dissidio tra la necessità d'impiegare parole e la tendenza a risolvere l'elemento semantico, tendenzialmente riflessivo, razionale, nell'assoluta

liricità, oppure, addirittura, a trascenderlo. Il verso, quindi, finisce con il configurarsi alla stregua di una pratica esoterica con velleità essoteriche, nel senso che il problema, come ben teorizzò EugenioMontale, non risiede banalmente nel farsi capire. Se questo fosse l'obiettivo esclusivo, basterebbe adoperare una modalità espressiva più diretta. La poesia, invece, punta a far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano. In ciò può cogliersi una marcata aderenza con la musica, benché quest'ultima, in quanto arte che adopera materiale asemantico, è spesso stata maggiormente in grado di presentarsi come sostrato di composizioni dal carattere oggettivo, meglio resistenti al tempo di quanto non accada per le liriche, in cui l'oggettivazione verbale sconta un dazio di natura storica, che lascia affiorare l'elemento soggettivo. Il parallelismo tra parola poetica e musica, tuttavia, non solamente è lungi dall'essere inedito, ma  vede oggi le distanze tra le due arti tornare a ridursi. Accorciarsi perché la rutilante consunzione del presente e dei suoi codici espressivi, favorita non secondariamente da una Tecnica liberatasi dall' imprinting del proprio creatore, l'Uomo, da essa soggiogato, demolisce quotidianamente stili, convenzioni e usi. Da un lato vagheggiando infinite capacità di creazione originale, anzi originaria, dall'altro sovraccaricando la memoria fino al punto da renderla superflua, dando vita a una società schiacciata sulla presentificazione estrema delle esperienze dei suoi membri. Anche in questi aspetti vi è il malessere rinvenibile in alcune composizioni, che si impasta, senza consentire ad alcuno di tirarsi fuori dal pantano, con il tratto antropologicamente socievole e altruistico dell'essere umano. Ancora una volta, cioè,  gli autori della raccolta riescono a partorire una creatura antropomorfa, alla cui nascita ciascuno ha contribuito con una peculiare visione del mondo, tessera di un più ampio mosaico  che assume significato soltanto accostandone le singole componenti. Mosaico nel quale, come suggerito dal titolo, il violino come sussidio espressivo porta in dote una fertile ambiguità, che si estrinseca nel proprio essere strumento quasi divino o nella rappresentazione metaforica di una sua parte, fatta propria dalla saggezza popolare, di un irrisolto rapporto con se stessi e l'ambiente circostante ("sei teso come una corda di violino! " ). E il fuoco, in questa prospettiva, senza essere come in Eraclito l'elemento dal quale tutto trae origine e a cui tutto ciclicamente ritorna, né tanto meno venire indicato quale strumento di purificazione dal peccato, come nelle sadiche pratiche dell'Inquisizione, riveste piuttosto il ruolo di forza in nuce sia creatrice che distruttiva. ü questa la dialettica irrisolta tra critica del presente e gioia / stupore di vivere che traspare, con cromatismi unici, nelle poesie rabbiosamente giovanili della Notarnicola e in quelle ireniche di Grimaldi, nella polisemia d'amore di Bertolo e negli interrogativi della Binetti, nella tensione dell'anima della Nuzzi e nella dolcezza dissacrante di Tanzi, nella notte pregna di ricordi di Andreini e nei grumi dell'anima della Comandé.

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Alessandro Lattarulo

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PASSIONALI ECCEZIONI: Prefazione di Alessandro Lattarulo

Ricostruendo la sorte toccata alla Polonia, stretta tra l'incudine della follia hitleriana e il martello della feroce volontà espansionistica dell'Unione Sovietica staliniana, quando il secondo conflitto mondiale volgeva all'epilogo, Franco Fortini, con strazio  lancinante, rilevò che " verranno da te ancora una volta / a contarti a insegnarti a mentirti / e dopo verranno uomini senza cuore / a urlare forte libertà e giustizia" (Varsavia 1944)
Non sembri ardito il paragone con il dramma bellico di settant'anni fa e la guerra a bassa intensità che oggi l' homo aeconomicus ha dichiarato ai propri simili sotto i vessilli della predatoria globalizzazione finanziaria. Sono versi, quelli di Fortini, che, nel denunciare la torsione degli ideali di giustizia, efficacemente sintetizzano lo spaesamento mescolato a malessere che serpeggia nell'odierna temperie della storia, il cui connotato principale non riesce ad affrancarsi dalla corazza debilitante della "crisi".  Non nel senso impregnato di stucchevole nostalgia del passato e dei "valori perduti", ma come incapacità antropologica di fronteggiare un mutamento epocale infarcito di imperativi alla performatività che rende l'essere umano, come notò Gunther Anders, "antiquato", sopraffatto dalle creazioni tecnologiche che egli stesso ha dato alla luce. Ecco allora che il verso, frangendo la dialettica tra "poesia impegnata" e "poesia intimistica", ricerca con fatica l'ontologia del vivere in questo tenebroso "tempo di misteri", come scrive Federica Ribis (Origini di vita) , dove l'esistenza appare muta / senza vita di riflesso" (Contrazione di rifinitura)  e diventa la metafora di una strada lunga e incerta che ha tuttavia la possibilità di tornare in discesa come nel momento della nascita (Le sponde abitate).
Non che ogni afflato rivolto al futuro sia soffocato da una pessimistica coltre di stampo quasi cosmico, perché, a ben guardare, l'auspicio di poter camminare calzando "sandali celesti" non suona come un'evocazione onirica puramente letteraria. Vi è un'interrogazione sul proprio essere che, anche al netto della fisiologica definizione di una marcata identità, come nella giovane Giusy De Pasquale, sconta l'estrema difficoltà di decodificazione del presente, che perde di conseguenza l'attingibilità di un senso profondo, ingabbiando l'auspicio di spiegare le proprie ali in spazi aperti senza affardellare con un'aura di mestizia "suoni, risa, giochi" (Piccola gabbianella nera). Retroattivamente al vorticoso caos quotidiano, si sviluppa allora la rivendicazione di poter essere orgogliosamente sospesi nella disponibilità a darsi pienamente, senza calcoli e senza pretendere nulla in cambio, cercando di attutire le proprie ire, di anteporre al proprio rabdomantico istinto anche piccoli particolari, come il movimento della dita che vagano passionalmente alla ricerca dell'anima, secondo quanto Ida Paola Notarnicola liricizza rispettivamente in Sono nata così  e in Accoglimi  Urlare i crimini altrui (È lotta)  non costituisce quindi un esercizio retorico volto a tacitare la propria coscienza,  ma diviene un messaggio nella bottiglia lanciato all'essere umano in quanto tale, rigettando le differenze di genere, di lingua, benché, come rileva Bertolo, il possesso delle chiavi per aprire se stessi sia una tremenda illusione. "Io credo di saper dire, / tu di saper capire. / Un fiume ci separa / e a unire le due sponde / è il ponte menzognero / dell'interpretazione / che spesso le confonde"  (Le chiavi del l'io).  Sublime però si staglia, sullo sfondo di questo tramestio interiore, che rispecchia il subbuglio sociale, l'amore come inatteso realizzarsi di ciò che sembrava, fino a un istante prima, impossibile

Alessandro Lattarulo

LEGGERI MA NON TROPPO  NOVE RACCONTI - dal risvolto di copertina

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Nove viaggi nel tempo storico e biografico, che fondono diacronicamente gli anni della gioventù e quelli della maturità, intervallati da interrogazioni dell'anima, dubbi e certezze, pianto e riso, canzoni e poesie, vacanze e oggetti della memoria, senza trascurare "il cielo stellato sopra di noi", con i suoi misteri, le sue leggi ancora largamente ignote e la silenziosa capacità di ridimensionare la protervia umana.

Nove quadri pennellati tanto in piazza o lungo i ballatoi delle case di ringhiera lombarde quanto guardando senza morbosità dal buco della serratura di porte serrate talvolta per pudore, più spesso per bigottismo. 

Una narrazione a tinte pastello che si districa tra molteplici piani e che, con semplicità e immediatezza mai banale, restituisce voce a un'Italia dimenticata dai mezzi di comunicazione, mettendone in scena, senza artifici, le contraddizioni, le tradizioni, il caparbio ancoramento a una dimensione agricola e comunitaria travolta dal passaggio all'industrializzazione prima e all'era tecnologico-digitale poi.

Una testimonianza funzionale non soltanto dell'autore per dotare retrospettivamente di senso la propria vita, ma rivolta al lettore, onde percorrere insieme un tratto di cammino nella condivisione di agrodolci ricordi bellici, esperienze professionali all'estero e stupore fanciullesco nella scoperta delle tante Italie di cui si compone questa lunga e proteiforme penisola.

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CIOCCOLATO E PEPERONCINO  PREFAZIONE DI Massimo Barile

 

Carlo Antonio Bertòlo è poeta che rappresenta, fedelmente e simbolicamente, il desiderio di comunicare la propria visione attingendo al meraviglioso giacimento lirico che possiede il suo animo di scrittore.

Si avverte la costante propensione a scrutare la realtà e a riportarla, con parole pregne di significati e legate intimamente al suo vissuto, sulle pagine della silloge "Cioccolato e peperoncino", sempre alimentando l'attento sguardo lirico che è proprio ed innato nel poeta.La poesia diventa "cassa di risonanza emotiva per lo spirito dell'Uomo": il canto lirico invade ogni "semplice cosa" e le occasioni della vita, di montaliana memoria, tramutano in poesia le molteplici visioni dell'animo e le pulsioni profonde; le passioni del cuore e le contraddizioni dell'umano vivere; le suggestioni del mondo naturale così come le emozioni quotidiane.

La capacità di osservare la vita, da parte del poeta, è sempre efficace nel rivisitare ciò che merita d'essere salvato e riesce a cogliere sensazioni e sfumature esistenziali, fin nelle più labili percezioni e nelle più profonde fenditure dell'umano vivere, dimostrando di possedere forte dose di sensibilità, prima umana e, poi lirica.

Tutto è pervaso da un sentimento lirico che innalza ad una dimensione superiore.

Nella concezione di Carlo Antonio Bertòlo, la poesia come "atto artistico", è emozione e meraviglia e, come afferma nella sua introduzione alla presente silloge, "non v'è nulla da spiegare".

La volontà di definire e codificare un poeta è illusione vana perché la visione di un poeta muta nel tempo e cambia in base alle esperienze vissute e sofferte: unica possibilità per comprendere veramente un poeta è penetrare nel profondo il suo universo lirico.

La propensione a voler incasellare i poeti in gabbie mentali o categorie, che trovano spazio solo in accademiche disquisizioni critiche, dimostra quanto possa essere messa in pericolo la tensione all'originalità d'un poeta che deve essere letto , compreso e vissuto, tenendo conto esclusivamente del suo nome e cognome, unici dati sensibili per un'autentica ricerca.

Nella poesia di Carlo Antonio Bertolo possono prendere vita le illusioni rimaste celate, le nostalgie ed i recuperi memoriali con i ricordi d'infanzia, il"vuoto d'amore" come i "sogni vani": e tutto si miscela in una substantia lirica capace di rivisitare il "dolceamaro" della vita, di percepire il "tannico sapore del dolore" e di navigare nei pensieri dispersi.

Dalla sua parola irradia il pensiero poetico che fluttua fra Terra, Mare e Cielo, la visione di una Natura che "trasuda amore" , quasi a preludere

l'inevitabile ritorno alla Madre Terra, come a ricercare il mistero di una possibile rivelazione che rappresenti uno stato estatico universale.

Carlo Antonio Bertòlo è "uomo solitario" che "abbandona le sue parole al vento" (tensione sovente reiterata nella sua visione lirica), fiducioso nell'immenso potere della Parola e sempre proteso ad indagare anche i silenzi che, spesso, nascondono innumerevoli emozioni inespresse ed inesprimibili, fino alla necessità inderogabile di scoprire il senso della vita e, nella personale visione, ricercare il significato autentico della sua avventura umana, dopo aver vissuto i "sogni giovanili", dopo aver fatto i conti con i "pezzi di verità" le immancabili ferite e le "vuote speranze".

Carlo Antonio Bertòlo, è un poeta che cosparge molte liriche di numerosi riferimenti mitologici e classici, ma è anche capace di spolverare i componimenti con l'ironia e con sguardo critico nei confronti delle contraddizioni e delle ingiustizie della società.

Nel continuo processo di scandaglio lirico Carlo Antonio Bertòlo confessa di sentirsi "anima sospesa" in ascolto della "musica del cuore" , immerso in un limbo mentale, quasi asserragliato nel suo "claustrale rifugio", insieme ai suoi libri: oasi dove "danzano superbe" le sue orchidee, sigillo lirico di straordinaria eleganza.

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Massimo Barile

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INCHIOSTRI E FONEMI  VERSI E RIME IN LIBERTÀ Prefazione di Alessandro Lattarulo

 

La poesia è preghiera.  Laica , ma non solo. E come ogni preghiera recalcitra. Oscilla senza requie tra il polo della libertà, il cui esercizio consente di spalancare una finestra su sé stessi, per divincolarsi dalle norme sociali, e l'opposto dell'irreggimentazione. Respingendo la libertà come spinta compulsiva al mero godimento, che rischia di divenire tanatico, il verso si arresta prima di varcare il confine del desiderio

 e raggiunge un compromesso con l'estetica. È una scissione dietro la quale si cela spesso un senso di castrazione  del poeta, impedito nel mito dell'autogenerazione.  In Bertòlo tale lacerazione, il "sopruso" subito dal manipolatore della parola che cerca di indiarsi, non evapora del tutto, ma transita a uno stadio maturo, in cui l'amore è talmente autentico da non soffrire l'ancoraggio talvolta alla roccia talaltra alla liquidità del mare. Allo sguardo trasognato e all'impulsività della gioventù subentra il disincanto che non boicotta il veleggiamento onirico, ma nel quale si fanno largo nuove consapevolezze, come quella che si lascia cullare dalle gioie che solo i bambini riescono a regalare. Proprio in virtù di tutto questo, la coscienza civile dell'Autore si strazia al pensiero che il Mediterraneo sia diventato un cimitero di disperazione, sulle cui sponde approda il corpicino senza più vita di Aylan, dei tanti Aylan che rimuoviamo come scomode testimonianze dell'ingiustizia generata dai nostri comportamenti.  Non c'è però atteggiamento censorio in Bertòlo: le barriere non si abbattono giustapponendo violenza a violenza. La ricercatezza del suo verseggiare, che giammai scade a vacuo esercizio, è essa stessa, nel tentativo di sensibilizzare attraverso stornelli e rime, un'iperbole con cui donare. La vita non si realizza soltanto  attraverso l'appagamento dei bisogni istintuali, ma si umanizza mediante l'acquisizione di una dignità simbolica che la rende insostituibile. Che è capace di parlare e ascoltare, soddisfacendo se stessi e gli altri. Sarebbe dunque salutare se all'estremo foglio del calendario di ciascuno (Aspettando) invece del pianto vi fosse sempre uno sprazzo di poesia.

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Alessandro Lattarulo

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LE FILASTROCCOLE  Esplorando la natura Illustrazioni di Massimo Conconi.
Prefazione di ETTORE CERIANI


AVVENTURE DI UN NONNO.
Nelle innumerevoli vicende della vita a tante persone capita anche di diventare nonni.
è un ruolo che, specialmente nell'epoca attuale, con i cicli che tendono costantemente ad abbreviarsi, può riservare diverse sorprese e non pochi momenti di... smarrimento. 

Il fatto è che i bambini di oggi sono molto più smaliziati di quanto lo erano i loro nonni.
A chi si sforza di creare con il nipote un rapporto affettivo ed educativo, che non sostituisca le altre relazioni (genitori, amici e insegnanti) ma le integri, si pone il problema di una dimensione che sia singolare ma pure coerente.
Ho una nipote che ha appena compiuto sei anni. I suoi genitori lavorano a Milano e quindi io e mia moglie, entrambi pensionati, sostituiamo mia figlia e suo marito per alcune ore della giornata, oltre a quando si ammala oppure è in vacanza.
Ciò ci obbliga ad atteggiamenti consapevoli, anche se a volte Viola (si chiama così) ci spiazza. Inizialmente ci siamo adattati a ritornare piccoli sino ad incrociare la sua età, adattandoci al suo linguaggio, alle sue poche conoscenze ed al suo vocabolario.
Confesso che mi sono divertito, storpiando un po' e semplificando il mio modo di parlare per adattarmi costantemente al mutare del suo modo di esprimersi. Insomma, anch'io sono diventato piccolo per trasformarmi in una specie di locomotiva in grado di agganciare il vagone e procedere assieme.
Non sono nemmeno mancati gli episodi divertenti. Ne riporto qualcuno: innanzitutto la grande fantasia con la quale inventava certi termini: "insalatero" al posto di fruttivendolo; "trombiere" invece di suonatore di tromba. E poi qualche momento di grande imbarazzo, quando in una chiesetta di montagna ci ha chiesto ad alta voce: << i bambini seduti davanti sono tutti figli del prete?>> con il pubblico che si è messo a ridere divertito. Verso di lei sia io che mia moglie abbiamo usato molta attenzione, monitorando la sua continua crescita attraverso i gesti, i modi di rapportarsi con gli altri, i ragionamenti sempre meno embrionali, l'ampliamento dei vocaboli usati e la maturazione delle sue espressioni.
Oggi, pensando agli anni trascorsi, ritengo d'aver avuto l'occasione di rivivere una seconda volta gli anni dell'infanzia, in alcuni momenti libero dalle incrostazioni del vissuto. In tutta onestà penso che mia nipote sia stata più utile a me di quanto io lo sia stato nei suoi confronti.
Dei miei primi anni di vita non ricordo nulla, tranne qualche modesto particolare dei giorni di scuola. Ho quindi avuto la possibilità di rivivere in modo avvertito quella che, sia pure per vaga somiglianza, è stata la mia infanzia.
Mi ha pure aiutato molto a cambiare il mio modo di concepire la vita. Non più una breve parentesi fra la nascita e la morte, ma una lunga catena di esperienze che si trasmette in ogni anello fra il passato e il futuro. Ho capito poi che i bambini nei primi anni di vita sono come le spugne:  la loro curiosità è immensa, come la loro fantasia.
La televisione offre loro parecchie opportunità, ma spesso è anche piuttosto deviante perché risulta astratta e lontana: propone ma non raccoglie le loro domande che invece sono puntuali durante un racconto: "Cos'è un..?", "Perché..?".
Per un bambino che spesso non conosce gli animali dal vero, un topo è un piccolo giocattolo che si può azionare grazie ad un tasto e ad una pila.
Così, la prima volta che ha visto una gallina mi sono sentito chiedere da mia nipote: <<Nonno dove ha la pila?>>; oppure <<Perché questa pecora non parla?>> La stessa cosa succede per quanto riguarda la natura nei confronti della quale oggi si impone sin dai primi anni la necessità del rispetto ecologico.
Quindi, molto meglio i racconti e le filastrocche lette dai nonni (o dai genitori) perché permettono un rapporto più diretto e la possibilità, pur ricorrendo alla fantasia, di distinguere la realtà dalle finzioni.
E poi perché con le "Filastroccole" si divertono pure i nonni !

Ettore Ceriani!

 

SILLOGE MISTA IN AGRODOLCE  IN PARTE SERIA, IN PARTE SEMISERIA CON FINALE DEMENZIALE.
Prefazione di Alessandro Lattarulo

Sorprende Bertòlo. Sorprende perché non finisce di stupirsi.  Riottoso ai canoni e mosso dall'ardente desiderio di sperimentare e cimentarsi con l'ignoto, plasma la parola, la destruttura e le rimodella fin quasi verso esiti che trascendono le proprie intenzioni. Il poeta, d'altronde, è un creatore indefesso di significati inediti, che passano per l'azzardo linguistico, per l'utilizzo ausiliario di parole piegate a esplorazioni oniriche tra disegni di carta. La parola evoca ricordi e traghetta nel futuro, fungendo da cerniera per ricreare continuamente la realtà a partire dall'esperienza di vita, propria e altrui.
Al cospetto di ciò, il poeta, ergendosi a giocoliere, fa il verso ai propri versi, canta in maniera mediamente semiseria le  proprie dolenzie, schernendo il dato anagrafico, anche per esorcizzarne il peso. 
Se il silenzio appare birichino, non manca, in questo laboratorio, la domanda attraverso cui consentire al lettore di interpretare questa sorta di lascito letterario in guisa di burla: "chi fui?" Non affinché la decifrazione, con guida paternalistica, sia univoca, ma per suggerirgli di non disperdere l'attenzione su qualche elemento di contorno e più appariscente di un'opera così eclettica.
In una dimensione pacificata dell'anima e dell'esistenza, il piacere è la privazione, Eros e Thanatos non conducono nel vicolo cieco della lacerazione identitaria, dello smarrimento, ma vengono visti con levità, con distacco serafico, conferendo loro una cifra spogliata dalla falsa tragedia che quest'epoca ama mettere in scena e rappresentare costantemente fossilizzandosi su sostantivi ai quali conferire un'accezione puramente negativa, come "crisi". La provocazione dell'autore è viceversa tesa a mettere alla berlina l'inutile saccenza di chi non potrebbe neppure permettersela, senza dimenticare quel che ci accade intorno, ma devoto a uno spirito vagamente burlesco, come nel racconto di una Genesi secondo babbeo o nella fustigazione sorniona dell'ipocrita pudicizia che riservano agli "scarti" del nostro organismo. Il tutto spaziando in modo libero e spensierato tra alcuni lasciti stilistici di primaria importanza, secondo quanto Bertòlo stesso ci racconta, per esempio, nella prefazione alla sezione in cui si cimenta con la destructuratio loqui.


Alessandro Lattarulo

 

LE  PATURNIE DEL NONNO  EPISTODIARIO APOCRIFO  Illustrazioni di Massimo Conconi. Pefazione di Alessandro Lattarulo

Strumento in apparenza desueto, quasi respingente, finanche catalizzatore di sorrisini sarcastici, la lettera si trasforma, attraverso la penna di Bertòlo, in un affresco della propria età, senza chiassosi giovanilismi di maniera ma anche distante dall'evocazione nostalgica dei più incalliti laudatores temporis acti.
Il tema che innerva le pagine di questo libro, infatti, al di là della forma con il quale si dispiega e degli accorgimenti stilistici più o meno ricorrenti, è brandire il calamo, ormai diventato con il computer una sequenza binaria, per dipingere con tonalità cangianti pensieri e sentimenti. Operazione anch'essa in apparenza scontata, ma invero tanto profonda da diventare una sorta di unicum in un'epoca di passioni tristi, come sostiene Galimberti rileggendo Spinoza, di ripiegamenti solitari incapaci di valorizzare il silenzio e perciò pronti a improvvise eruzioni sopra le righe, talmente pacchiane da sembrare posticce.
L'approccio serafico, a tratti anche disincantato, dell'Autore non è definitivo, ormai acquisito una volta per tutte. No, in Bertòlo manca - per fortuna, ci viene da aggiungere - una simile boria, la granitica certezza di essere giunti con la senilità alla verità, al giusto, all'indiscutibile. Più umilmente, accanto alle convinzioni che  strutturano qualsiasi trattato identitario senza il quale resteremmo naufraghi, privi di ogni ancoraggio, vi è ancora il gusto della ricerca, la coltivazione del confronto intergenerazionale che solo può consentire il tradere che non è mai asfitticamente  ingabbiato nella mera ripetizione di se stesso, ma che si fa piuttosto tramite  di un messaggio da recepire e lentamente modificare, avendo nondimeno ben presente il tracciato lungo il quale correre.
I capitoli dell'opera, allora, per la gran parte sotto forma di lettera aperta a personaggi reali o immaginari, non sono etichettabili, e rapidamente archiviabili, come sterile divertissement, come divagazione, come paturnia di un vecchio brontolone. Certamente fungono in alcuni passi da pretesto, da valvola di sfogo per attutire, ammorbidire, smussare e infine incellofanare la sofferenza, ma una sofferenza non tragica né superficialmente malinconica. Vi è piuttosto una tensione verso l'atarassia democritea, quello stato ultra-cosciente che consenta di vivere l'oggi suturando in radice gli affanni, nella consapevolezza che il rumore delle lancette dell'orologio della vita sia sempre più stordente e che, a dispetto di ciò, strumento di rivincita su quel che il tempo inesorabile sottrae sia l'elaborazione di ogni lutto attraverso la semplicità. Non ingenuità, non rifiuto della scienza e della conoscenza tout court, ma il loro ridimensionamento come antidoto all'istupidimento ipertecnologico che trasforma il pianeta su cui viviamo (l'unico peraltro) facendo dell'Uomo l'animale più autolesionista mai comparso, e che assume raccapriccianti fogge di consumismo, di frenesia da usa e getta. 
L'osservatorio di Bertòlo sarà forse anche privilegiato, se giudicato comparandolo alle situazioni di tremenda povertà a cui tanta parte del pianeta è ancora ridotta, ma consente, a ogni buon conto, di sgombrare il campo dai falsi idoli, dai falsi scopi, dalle allucinazioni di massa. Ritornando coi piedi per terra, con lo sguardo alla natura, sposando un ideale di vita semplice, liberato da sovrastrutture devianti. Non si tratta soltanto di quella che troppe volte viene liquidata come "filosofia semplice",perché nessuna descrizione della realtà, anche quando compresa e compressa tra presente e ricordi, tra sforzi di decifrare l'esoterico per renderlo essoterico, può fare a meno di un transito tra le sabbie mobili dell'onirico.
Il sogno in Catullo, come in psicoanalisi, non è la trasformazione del già dato, ma eccede l'intorno, il conosciuto, proietta in un'altra dimensione e costituisce una preziosa parte della legacy che ciascuno di noi (si) lascia alle spalle. Non un banale surrogato con una mano di vernice fresca, ma un qualcosa di ancora da sperimentare, conoscere. Perché la conoscenza è, per suo intimo statuto, un'esperienza incomprimibile nella parentesi della vita di ciascuno e procede (talvolta finanche regredendo) secondo una legge inafferrabile ma che fende diacronicamente le dimensioni dello spazio e del tempo.
Il contributo grafico di Conconi, allora, adoperando un linguaggio complementare a quello del logos completa e fornisce gambe più robuste al libro, snodandosi come un rampicante che, avvinghiato all'amico Bertòlo, si sporge verso la generazione di nipoti. E l'utilizzo del plurale non è retorico né metaforico, poiché quando si diventa "nonni" si apre un canale comunicativo con tutti i bambini che nessun genitore può intercettare e comprendere fino in fondo. È vero, talvolta i piccoli sembrano refrattari alle parole degli anziani. Le due generazioni viaggiano alla medesima velocità ma con dispositivi differenti. Ciononostante quel che un nonno semina è quanto di più prezioso possa esserci e porterà, nel giro di qualche anno, a frutti maturi, cresciuti con quella tipica miscela di sogno e realtà che, dipanandosi tra fiabe e approccio alla datità, consente lo sviluppo equilibrato dei cuccioli d'uomo.
A loro è destinato il compito, non appena avranno assunto ruoli di responsabilità in campo sociale, politico, economico, di riappropriarsi del gusto di vivere, di recitare i luoghi natii e di residenza guardandosi dalla tentazione di spoliarli, violentarli. Si tratta di un percorso, erto e labirintico, che muove dalla coltivazione entusiastica della memoria. In fondo, già questo basterebbe per sintonizzare tutti sulla medesima lunghezza d'onda e donare quel sorriso che, dai suoi tanti osservatori, non ultimo quello beckettiano della panchina, Bertòlo rileva troppo spesso opacizzarsi sui volti dei passanti.

 

ORTOFONICHE  e  TORTOFONICHE    dal risvolto di copertina

Con questa nuova, poliedrica, opera poetica, Bertòlo trascina all'estremo della deflagrazione roboante ogni sperimentalismo destrutturante. Si spinge fin oltre la permanenza, benché precaria, in un recinto dove il suo intento sia in qualche misura attingibile e decifrabile. Il suo intervento sistematico e caparbio sui fonemi produce a conti fatti un effetto spiazzante, sotto la cui pressione cede ogni baluardo e crolla ogni nesso logico-proposizionale nonché ritmico, producendo, in termini lacaniani, un'alienazione significante.  Può rintracciarsi, tra le pieghe del suo esperimento, una volontà, invero nient'affatto recondita, di mettere in discussione il discorso poetico, celando il primo significante, anzi rendendo fantasmatico, per caricare questa peculiare espressione letteraria di un surplus di mistero.
Il lettore viene quindi catapultato in un vortice di dissonanze "per caso", nel quale i temi cari all'autore, che ripropone come in passato un serrato corpo a corpo con i ricordi, per tracciare un bilancio mai definitivo della propria esistenza, vengono alleggeriti dal fardello della testimonianza pedagogica, consentendo inedite prospettive alla metabolizzazione della fruizione del proprio sforzo.
In questa ricerca di senso altrimenti concepita rispetto alle usuali modalità, l'ordine del senso non si accontenta di rimandare psicanaliticamente a quello dell'essere, ma esige di scovare un Altro dell'Altro che garantisca una completezza forse chimerica.
In equilibrio funambolico tra quadri di vita quotidiana e dovere della memoria, Bertòlo rimarca con la sua peculiare cifra stilistica che solamente tale arrischiarsi all'inusuale consente di vivere appieno la vita, fuggevole torno di tempo che la scienza si cruccia di dilatare, nella perenne dialettica che la oppone alla natura. Non sembri pleonastico quest'ultimo riferimento, perché tutta l'opera del Bertòlo si conferma composita e multistratificata. Laddove infatti  la crosta goliardica appare a prima vista preponderante e sembra ombreggiare i frutti poetici con un irenismo condito da punture di spillo salaci e argute, grattando sotto la superficie riluce una meditazione che trascende le esperienze professionali dell'autore, per rilevare, senza adagiamenti banali, il più autentico enigma con cui ogni essere umano, oltre all'ineluttabilità della propria finitezza, si macera: chi/che cosa ci sarà "dopo"?

 

 

LALIE  E METAFORE MIE  Prefazione di Alessandro Lattarulo

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Ancora una volta, con l'usuale arguzia e lo spregiudicatamente rilassato utilizzo delle parole, delle rime, Bertòlo effettua un bilancio sereno eppur severo dell'esistenza propria e del genere umano. Non si tratta di chiudere "la partita" soppesando "fatti e misfatti" (Bilancio) ,  ma di aprire un vero e propio sguardo indagatore sul rapporto dell'uomo con i propri simili e soprattutto con la Natura. C'è un senso di fine che non solamente investe l'esistenza del singolo, ma di tutto il genere umano, perché, indiandosi, l'uomo si è eretto a governatore della Terra, gestendone al peggio i delicati equilibri, conducendo il pianeta verso un precipizio dal quale sembra ormai impossibile ritrarsi. In ciò è chiaramente percepibile il nobile senso di responsabilità e lo scrupolo per il passaggio di testimone verso le nuove generazioni, chiamate a un compito arduo. Amareggia tuttavia l'Autore rilevare non solamente lo schiaffo assestato al Creato, il dileggio verso la Natura, ma altresì che la mancanza di ogni cura, così simile alla sguaiata archiviazione dei più preziosi insegnamenti delle generazioni dei più anziani, proceda di pari passo - se non addirittura discenda in parte - dalla frettolosa e maleolente provocazione nei confronti della cultura, che anche simbolicamente si riassume nel rogo del Libro. Questo strumento di accumulo stratificato e condensazione del sapere, che dovrebbe costituire il più nobile strumento di distinzione tra l'Uomo e le altre creature, invece di essere elevato a faro di riferimento per la società, sembra destinato al dimenticatoio se non addirittura (appunto) a nuovi falò, in nome dell'ipocrisia, del cedimento strutturale a un sistema di feticizzazione del capitale, a un rapporto immaturo con la scienza, che oscilla tra la deresponsabilizzazione di ciascuno in nome dei postulati di questa e la sua parcellizzazione specialistica che mortifica, come nel caso della medicina, il tutto per la parte. Questo è il problema al cui Nostro oppone come estremo tentativo di difesa, quanto meno testamentaria, l'elogio del banale, in cui trova sublimazione l'uomo del quotidiano, sublime e meschino, fragile e forte, che costituisce il vero commiato del Bertòlo. Ma la mestizia dell'epilogo è comunque in tutta l'opera equilibrata giocosamente dalla capacità di inventare, di riferirsi al proprio ambiente in maniera anticonvenzionale, con l'appagamento dello sguardo da nonno  che ci aveva consegnato in opere precedenti e che anche in questi versi ritorna a farsi sentire per dare alla luce una silloge che rende, al tirar delle somme, quella di Bertòlo una voce unica e pienamente riconoscibile nel panorama poetico Italiano.

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LE CURAÙRE DEL PANARO

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         PRESENTAZIONE

 

È raro imbattersi in un autore in grado di definirsi così appropriatamente come riesce a Bertòlo. Sì, è veramente un «saltimbanco di parole». Alla dimensione ludica, che da sempre accompagna il suo verseggiare, così attento alle rime, alla musicalità, alla facezia lessicale, si accompagna nondimeno un acuto sguardo sulla storia e sul mondo. La cifra bucolica che innerva la maggior parte dei propri componimenti non è mai specchio narcisistico né fuga dalle contraddizioni del presente. Senza dubbio funge da artiglio per catturare i ricordi dagli anfratti del cuore, spolverandoli e creando simmetrie depurate da nostalgie lacrimose tra la giovinezza e la vecchiaia, ma è in primo luogo la rivendicazione di una essenzialità che l’Uomo ha smarrito, nella dionisiaca infatuazione per la Tecnologia. Se quest’ultima, infatti, esaspera protagonismi vacui, la Natura non è solamente idillio, pace irenica. Nelle sue dinamiche sono rintracciabili amore e morte, deantropologizzate però, scevre dai cascami culturali che se per un verso rendono l’essere umano unico nel panorama terrestre, per altro lo allontanano dall’essenzialità delle cose e, quindi, a conti fatti, persino da sé stesso.                 

Bertòlo non stipula un patto con il lettore, pur rivolgendosi a lui senza remore, non snoda le proprie liriche in apnea, ma tende, semmai, a liberarle dalla forza di gravità per ridicolizzare l’assurdità della guerra o l’ipocrita utilizzo della religione a scopi politici. Detto altrimenti, Bertòlo ci invita, con saggezza, a non prenderci troppo sul serio, ma a navigare tra i giorni che scorrono alla ricerca di un equilibrio che soprattutto la frenesia cittadina ci fa apparire anodino, mentre è la condizione necessaria per mutare le passioni tristi che germogliano lungo i bordi di un’età complessa in genuino entusiasmo.    

 

      ALESSANDRO LATTARULO 

 

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