IMPRESSIONI LETTERARIE 2016 3°
LUGLIO 2016
AL DI LÀ DELLE APPARENZE - cosa si nasconde dietro la strage di Dacca.
Gli avvenimenti in Bangladesh hanno scosso il mondo intero e la risposta del mondo è stata di unanime condanna, il che non è solamente giusto, ma doveroso. Peccato che sia stata una risposta del tutto viscerale e di una superficialità estrema, sull'onda del vento che tira: l'integralismo islamico. Basta chiedersi chi, come, dove e perché 20 persone sono state brutalmente massacrate per capire che il grido di: « Allah è grande» è solo un pretesto contingente, non la motivazione che ha innescato il massacro.
L'uccisione dell'unico musulmano è stata solo una necessità di coerenza col grido di battaglia. Non so chi fossero i non italiani uccisi e cosa ci facessero in quel ristorante nel quartiere delle ambasciate, ma per i nostri il CHI risponde a imprenditori del tessile; il PERCHÉ: a Dacca per affari, non per diporto e non certo per vendere il made in Itali ai più miserabili del mondo; dunque erano lì per le opportunità che il Bangladesh offre per produrre a costo quasi zero. AL DOVE la risposta è nel paese più povero del mondo asiatico; AL COME la risposta e con le modalità del momento storico geografico e culturale che riunisce i più sfruttati dietro l'unico vessillo capace di riunire i classici "polli di Renzo" di manzoniana memoria: la bandiera dell'Islam; AL COME la risposta è col rituale della bandiera sotto la quale fanno credere di combattere.
Ma è proprio vero che questi "martiri" siano veramente vittime dell'integralismo islamico e non piuttosto della globalizzazione e dello sfruttamento neoliberistico che anziché portare ricchezza dove delocalizza va a portare sfruttamento e miseria solo perché là le leggi sul lavoro non esistono e quindi lo sfruttamento diventa una "opportunità" anziché un reato? Dove le multinazionali con sede altrove si portano a casa propria la ricchezza prodotta e lasciano sul posto solo i rifiuti industriali delle loro attività?
Qualcuno dirà che gli assassini erano tutti intellettuali, laureati, membri dell'alta società locale; vero anche questo, ma anche i Robespierre, i Danton e i Marat non erano sanculotti, ma fecero leva sulla disperazione dei sanculotti.
Un'altra considerazione che mi ha colpito è che ai tempi della civiltà agricola si suppliva alla carenza di manodopera a basso costo con lo schiavismo e la tratta dei negri, portando la manodopera sul posto di lavoro; ora, nell'era della globalizzazione postindustriale si delocalizza l'attività produttiva là dove il lavoro costa poco o nulla.
Il negriero dei secoli scorsi ha solo mutato la tecnica d'intervento, ma scopo e i principi restano gli stessi: opportunistici anziché etici, affaristici anziché democratici e di rispetto della pari umanità dell'altro.
Che i metodi introdotti dalla globalizzazione e dalle nuove opportunità offerte dalla modernità aumentino anziché ridurre la forbice tra ricchi e poveri nel mondo, è sotto gli occhi di tutti e il sostenere che la delocalizzazione porti capitali e ricchezza al terzo e quarto mondo è una tale ipocrisia cui solo gli allocchi possono ancora credere. Chi lo sostiene lo fa perché ha interesse a farlo, ma è da stupidi ignorarne le estreme conseguenze.
Ho un grande rispetto per chi è morto e mi duole che sia successo perché ogni vita è sacra e preziosa, a chiunque appartenga. Non sono l'estremista che dice: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso» ma il filosofo cinico che suggerisce:«Si cerchi di non essere causa del proprio mal per non dover piangere se stessi».
LUGLIO 2016
Impressioni su: IL CICLOPE di Paolo Rumiz
«Un vento che ha odore di Oriente …»
L'ultima lettura non poteva finire che in mezzo al mare guardando là dove sorge il sole: «Da levante continueremo ad attingere calore e vita …»
Ricordi, riferimenti, citazioni, … un caleidoscopio di libere associazioni.
Descrizioni stringate, minimali, di solo essenziale, ma esaustive e stupende.
Condisce i pensieri con giocosa ironia.
Ancora un andare stando fermo per uno che ha sempre avuto suole, ruote o liquido sotto i piedi; ciononostante corre verso orizzonti lontani "semicircolari" in uno "stare" … "mobile"
Anatomicamente il cervello di Rumiz non è come quello di tutti, non può esserlo! È una carta nautica del Mediterraneo e dell'Atlantico; è una mappa geografica dell'Europa e del Medio Oriente; è un planetario che grandina stelle e costellazioni.
Commentare ?
Ma quale commento !
Bastano due citazioni e qualche flash e poi solo rispettoso e ammirato silenzio.
Perché ?
Chi legge capirà.
Impressioni su: VIAGGIO IN AMERICA di Oriana Fallaci
«In America mancano i fantasmi … è un mondo senza radici …»
(pag. 106).
Ironica, scanzonata, cattiva. Geniale nel cogliere la contraddizione. Pittrice di un'America narcotizzata da una comodità generatrice di pigrizia e prodotto di pigrizia, smossa o meglio rimescolata solo dall'ambizione.
A drogare di grandezza l'Americano sarà l'immensità dello spazio?
La dilatazione del vuoto?
Chissà !
L'America di Oriana Fallaci è il lunapark di un asilo infantile.
L'Oriana divertente è quella solita, scanzonata, ironica, spesso sarcastica che chirurgicamente scortica il lato oscuro dell'humanitas dal primo al penultimo capitolo del libro, ma la donna vera, quella nascosta la trovi nell'ultimo, quello sui teenager, dove, traendo le somme delle sue inchieste, mette a nudo l'ingenua umanità dell'America, salvo pentirsene nelle lettere al direttore, dove il sarcasmo riesplode ancor più paradossale e precipita nel grottesco puro, come se l'autrice volesse riscattarsi da un attimo di debolezza.
Impressioni su: IO UCCIDO di Giorgio Faletti
«Uno come Giorgio in America si dice larger than life: uno da leggenda» firmato Jeffery Deave, Il Venerdì.la Repubblica.
«Non ci crederete ma oggi quest'uomo è il più grande scrittore italiano» Firmato Antonio D'Orrico, Sette-Corriere della Sera.
È quanto si legge in quarta di copertina.
sulle spacconate americane passiamoci sopra e demandiamo il lettore all'ironia della Fallaci.
Che l'editoria di oggi si affidi più al marketing che alla letteratura è comprensibile, ma non perdonabile perché certe macroscopiche esagerazioni non sono accettabili.
Allora o chi fa una recensione è pagato per soffiare fumo negli occhi del lettore, declassandolo ad acquirente direi "imbecille", e allora è meglio che strilli da dietro una bancarella di mercato rionale non dalle pagine di un giornale a grande tiratura, perché lo squalifica, oppure fino a quel giorno non ha letto niente di meglio e allora vada a scoprire Umberto Eco.
Il mio parere su questa tendenza lo taccio per non essere sgradevole ad alcuno.
Personalmente questo romanzo lo trovo mediocre, con un esagerato gusto del macabro; con un linguaggio poco letterario e molto, molto popolare, talvolta volgare quando non scurrile. 682 pagine sono esagerate anche per descrivere gli omicidi di un serial killer, che fra l'altro si ripetono tutti uguali con piccole varianti per giustificare la reiterazione.
Più che un romanzo omogeneo mi pare un patchwork di più resoconti professionali: dall'iper-tecnologico cibernetico, allo specialistico di arti marziali, allo psichiatrico, dal militaresco dell'intelligence internazionale, al poliziesco, dal reportage giornalistico al racconto descrittivo. Un pot pourri di nozioni minuziosamente particolareggiate non affini tra loro che denuncia o un'operazione di assemblaggio, o un lavoro a più mani, perché ognuna di queste caratteristiche prevede specializzazioni universitarie e lunghe esperienze sul campo che non sono attribuibili tutte insieme alla vita di una sola persona. Ergo condivido i dubbi di Beppe Severgnini quando sospetta l'esistenza di uno (o più) ghost writer.
Questo modo di pubblicizzare un libro e un autore è il miglior modo di "sputtanare" (tanto per adeguarci) la letteratura; non lamentiamoci se poi l'80% degli Italiani non legge neppure un libro all'anno.
AGOSTO 2016
Impressioni su: PICCOLO MONDO MODERNO di Antonio Fogazzaro
Stupore e meraviglia è ciò che ho provato rileggendo Fogazzaro a sessantacinque anni di distanza dalla prima volta. Stupore per un linguaggio diventatomi ostico, quasi irriconoscibile nel suo periodare involuto e dispersivo di frasi incidentali entro frasi incidentali, che contengono altri incisi su incisi a mo' di scatola cinese e che da ragazzo mi era invece tanto familiare; meraviglia per quell'afflato religioso che oggi mi pare infantile, bigottesco e non poco ridicolo nella sua ingenuità fideistica, tanto più quando venga attribuito a personaggi di notevole cultura.
Un linguaggio ed una fede mantenuti caparbiamente in vita nelle sue forme più esteriori e superficiali da un'aristocrazia decadente e conservatrice a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Cavalieri non più imparruccati, ma pur sempre con monocolo e cilindro a diporto fra i poderi del proprio latifondo con carrozza e cocchiere; damigelle ancora incipriate, insaccate in crinoline con ventaglio e ombrellino parasole, in cerca di marito o di un amante, impegnate in flirt conditi con vezzi e moine, patetici "dislinguamenti" e teatrali isterismi, tra una passeggiata nel parco e un ballo festaiolo. Marchese, contesse, baronesse intriganti, immerse nella maldicenza e travolte dal loro stesso pettegolezzo; sacerdoti e prelati dediti più al culto della politica che della fede.
«Nihil novi sub sole» dirà qualcuno, ma c'è chi ancora coltiva quella nuvola di cipria e la conserva gelosamente e caparbiamente in uno pseudo Olimpo appartato e rigorosamente riservato.
E la plebe? Dov'è la plebe?Che fine ha fatto?
Non c'è plebe nei romanzi del Fogazzaro se non come fugace comparsa di servette, famigli e fattori a far da contorno agli aristocratici. Per il Fogazzaro solo la nobiltà e il clero sono degni di narrazione e come concessione magnanima vediamo far capolino qua e là l'alta borghesia del tempo.
L'attrazione più intrigante dei suoi romanzi sono e resteranno i personaggi intrisi di follia. Quel suo tentativo, seppur rudimentale, di scandagliare i misteri della psiche; inoltre l'annaspare tra fideismo e razionalità in una ambivalenza da borderline è la caratteristica sua più interessante.
Divertente resta sempre la vena comica e un po' burlesca di stile goldoniano; non per niente è vicentino e quello è l'imprinting del veneto puro a qualunque classe sociale esso appartenga, damerino di città o «sgàlmara» di contado.
Impressioni su : PICCOLO MONDO ANTICO di Antonio Fogazzaro
Mi chiedo che senso abbia che anch'io mi unisca al coro di chi afferma che Piccolo Mondo Antico sia il capolavoro di Antonio Fogazzaro, come se il Fogazzaro avesse bisogno del mio sostegno per continuare a mantenere il posto conquistato nella Storia della Letteratura Italiana. A ciò basta e avanza il vaticinio di Riccardo Bacchelli che, il 25 marzo 1942, all'Accademia d'Italia, così si esprimeva:«Fra tre anni … compirà il cinquantennio da che fu pubblicato Piccolo Mondo Antico; … ma cinquanta altri anni potranno trascorrere, e il centenario lo troverà libro vegeto e fresco di rigogliosa vita».
Di anni ne son passati molti di più e quel romanzo non ha perso nulla del suo smalto.
Chi abbia letto le mie impressioni sul linguaggio del Fogazzaro penserà che mi stia contraddicendo. Rimando costui al linguaggio dei classici greci e latini e gli chiedo: «Forse che quelle lingue oggi comprensibili solo a pochi studiosi inficiano la grandezza di Platone o di Tacito?»
Sono cambiati tempi, conoscenze, usi e costumi; è cambiato il modo di vivere, di pensare, comunicare e scrivere; sono mutati gli strumenti dell'agire, ma non le dinamiche dell'agire. La grandezza di uno scrittore è quella di saper raccontare il suo tempo con gli strumenti del suo tempo e questo il Fogazzaro lo ha saputo fare brillantemente.
SETTEMBRE 2016
Impressioni su: DANIELE CORTIS di Antonio Fogazzaro
Navigando a ritroso sul fiume della letteratura è bello tuffarsi nel 'paesaggio' socio-politico e culturale del nostro passato; scoprire come sia cambiato il modo di vivere, di pensare, di scrivere e soprattutto di credere, nonostante le resistenze, le diffidenze e la ritrosia nell'accettare novità e cambiamenti, che alberga nel sottofondo di ognuno di noi. Eterno scontro tra progressismo e conservatorismo, fra novità e tradizione: conflittuale ambivalenza del nostro essere di fronte all'omologazione che appartenga tanto all'uno quanto all'altro segno.
Diritto e rovescio della stessa medaglia uomo, individualista e sociale, che rivendica la propria autonomia di pensiero e che nel contempo esige gli venga riconosciuto e condiviso dall'incondizionato consenso altrui.
La metamorfosi dell'Italia, unita da soli 150 anni, più che dai giudizi compassati degli storici o di presunti tali, la scopriamo leggendo romanzieri come il Fogazzaro, minuzioso e fedele descrittore del suo tempo, delle abitudini, dei costumi, delle aspirazioni, delle ambizioni, dei sentimenti, del modo di pensare e di agire propri e dei suoi simili.
Si scopre allora la "moralità consuetudinaria" dei matrimoni combinati, il senso del voto, appannaggio della nobiltà e dell'alta borghesia censuaria, i seggi in parlamento riservati ai soli aristocratici conservatori e liberal-massonici più o meno corrotti e compromessi, cronico male dell'itala progenie, giusto per dimostrare come l'Italiano politicamente voltagabbana non sia un prodotto della degenerazione contemporanea, ma una sua caratteristica antropologica.
Una fede vissuta in maniera ossessiva, cieca e totale; amore platonico, sublimato, ridicolo; sofferenza psichica quasi masochistica: "… Più mi si combatte, più mi si offende, più soffro e meglio sto …" (pag.286)" dice Daniele.
La conflittualità vissuta nella dicotomia tra amore predicato e sesso palpitante che ne somatizza la frustrazione. Anche il paesaggio sembra enfatizzare questo atteggiamento esagerato tipicamente romantico.
L'unica rottura col romanticismo è la totale assenza di "mal sottile" e la fine del romanzo che si chiude con un distacco che, seppur definitivo, grazie a Dio, non si conclude col solito funerale. Restano però lacrime e languori sviscerati, spazzati via dall'epico gesto eroicomico di stile d'annunziano di "… Cortis (che), rimasto solo, sorse in piedi. Incrociate le braccia, guardò con piglio severo, là di fronte, suo padre, e disse forte:«Ecco»…
- FINE-
Ho chiuso gli occhi e mi sono rivisto Benito Mussolini che, primo modernista concreto, decenni dopo, arringava la folla inaugurando, dal balcone dominante la piazza di Littoria, la bonifica dell'Agro Pontino».
Impressioni su: MALOMBRA di Antonio Fogazzaro
Inutile che mi ripeta nel far notare quanto l'esoterico sia presente nell'autore, quanto esso lo affascini e quanto sottenda un conflitto trilobato tra fede, razionalismo e mistero.
«L'oggetto di Malombra è il male …» scrive Luigi Baldacci e il Fogazzaro non ne fa mistero. Già nelle prime venti pagine ci sono tutti gli ingredienti tra l'ngenuità del bene e la perfidia del male e il conflitto tra bene e male è il denominatore comune di un romanzo in genere. Fogazzaro in questo non si discosta dagli altri e come qualunque altro lo declina sull'onda dei propri sentimenti, dell'etica dei tempi e della propria esperienza umana.
La finalità didattica dello scrivere, occulta o manifesta che sia, è uno dei motori che spingono l'autore a scrivere.
Marina Crusnelli di Malombra!
Già il nome pare un annuncio, come una campana di viatico.
Malombra non è che un toponimo, ma sinistro, che diventa appellativo e apposizione: simbolo identitario e presagio.
Anche il cognome Crusnelli ha un che di criptico e oracolistico:
Crusnelli = croce in o per quelli?).
Il nome poi: Marina , ricorda stranamente il mare, la sua placidità improvvisamente sconvolta dall'uragano, il suo potere devastante e distruttivo, la calma insidiosa delle sue bonacce, l'incanto e la bellezza delle sue albe, la struggente malinconia dei suoi tramonti, la sensualità dei suoi approdi. Malombra non è forse l'incarnazione di tutto questo?
Sono sensazioni, pure sensazioni di un lettore che nulla hanno a che vedere con la critica.
L'incipit parla di un viaggiatore misterioso detto "viaggiatore fantastico" che sale su di un treno "tutto battiti dal capo alla coda, tutto un tumulto di polsi viventi", il quale viaggiatore scende a una stazione ignota che è "un nome gridato, ripetuto nella notte" e si trova di fronte un uomo che lo apostrofa: «È lei che va dai signori del Palazzo?» … «Ma come si chiamano questi signori del Palazzo?»... «Ecco, vede, da noi si dice i signori del Palazzo e non si dice altro».
Due pagine intere prima che compaia un nome: Cesare d'Ormengo, il signore del "Palazzo", il conte. Tre personaggi restano ancora anonimi: il coprotagonista che si scoprirà poi chiamarsi Corrado Silla, il vetturino e il ferroviere con la lanterna, dei quali non si saprà mai il nome; esseri senza volto né storia perché plebei, appartenenti a quella specie di mezzo tra l'animale da soma e la casta trinitaria fatta di aristocrazia, borghesia e clero.
L'oggetto del romanzo è il male e la follia nell'800 è ancora il male per eccellenza, il male oscuro, inspiegabile, incomprensibile, la possessione diabolica. Marina lo incarna, il Palazzo è l'ambiente, l'orrido di val Malombra la porta dell'Inferno; il conte Cesare e Corrado Silla le vittime predestinate, sua eccellenza la marchesa Fosca e suo figlio Paolo le comparse e gli altri a far da cortigiani.
Esclusi clero e servitù, se non vittime, tutti ne rimarranno in qualche modo contagiati, si salverà solo Steinegge il maggiordomo e sua figlia Edith, unici ad attraversare indenni la tragedia, perché i soli esseri normali in un loro un po' teatrale percorso religioso verso la salvezza.
In effetti l'incontro di Edith col padre è forse una delle pagine più belle, realistiche e toccanti del romanzo.
Impressioni su: IL MISTERO DEL POETA di Antonio Fogazzaro
Tutto nascerebbe da un sogno cosiddetto ricorrente che diventa presagio.
L'influenza freudiana è più che mai evidente.
La predilezione per la forma epistolare del racconto è pure una peculiarità del Fogazzaro, specie in questo romanzo in cui l'autore scrive all'amata lettere su lettere di confessione, come s'ella fosse un sacerdote ai piedi del quale deporre i propri peccati per ottenere il perdono del proprio passato.
La confessione come gesto autolesionistico perciò masochistico o sofferto rito di purificazione, fonte battesimale, lavacro che gli consenta di presentarsi e offrirsi a lei mondo, come presupposto per essere degnamente amato?
Rituale religioso e pagano insieme perché condotto sul filo freudiano dell'autoanalisi.
L'uso reiterato di anglicismi, germanismi, latinismi e grecismi oltre che di poesie proprie e altrui, rivela il narcisismo dell'autore che sembra dire al lettore:"Guarda come sono bravo, poliglotta, letterato, conoscitore raffinato d'arte e di musica". Atteggiamento perfettamente aristocratico se si riflette a quanta sollecitudine mettessero i nobili per galleggiare sopra la massa.
Mi sono chiesto, però, quanto pesasse inconsciamente il fatto di essere aristocratico, il non esserlo o l'esserlo solo in parte.
Nei primi due terzi del romanzo l'innamoramento del protagonista ha tutte le caratteristiche adolescenziali.
Infatti egli immagina di essere amato e immaginare è stimolante: eccita; il conoscere invece è riposante: catartico.
La proiezione dei propri sentimenti, pensieri e riflessi emozionali sull'oggetto cui vengono attribuiti, inondandoli con la luce della propria infatuazione è troppo evidente.
Mi domando se sia colpa del romanticismo l'aver modellato il giovane di fine '800 con simili peculiarità, impregnandolo di un idealismo astratto totalmente dissociato dalla realtà naturale dell'essere umano, o del falso moralismo clericale cattolico, incentrato quasi esclusivamente sui tabù sessuali anziché sul messaggio cristiano autentico, o se non sia esclusivo del nostro autore, educato da Don Zanella e da uno zio sacerdote, ma poi penso che, se non fosse stato un sentimento diffuso, quasi nessuno avrebbe letto il romanzo, che invece fu il primo vero successo dell'autore.
Ecco che allora sembra del tutto legittimo il comportamento del protagonista nel perseguire lo scopo di possesso contrabbandato per amore: la conquista dell'amata, strappandola al promesso sposo con ogni mezzo, compreso quello persecutorio che noi oggi bolliamo come reato di stalking. Comportamento che sembra la norma, visto che Violet lo subisce sia dal protagonista come, alla fine, anche dal primo spasimante che fu per lei il primo grande amore e che, dopo averla abbandonata, torna alla carica nell'imminenza del matrimonio con un'aggressività ingiustificabile.
Violet sarà la vittima di questo contrappasso, perché i contendenti guerreggiano per lei anche se non contro di lei.
La stessa passività della donna che viene posta come selvaggina, oggetto di caccia e di contesa al di là dei sentimenti che ha e che manifesta e attende pressoché inerte l'esito della zuffa, me lo fa pensare.
L'amore cosiddetto profano, quello propriamente carnale che è all'origine di tutti gli altri sentimenti è accuratamente tenuto fuori dalla narrazione, è "tabù" e tutte le sue pulsioni vengono dirottate sul "possesso", per cui la donna è amata in quanto "preda" e non "compagna". Il linguaggio usato per descrivere la vicenda suona quindi per noi falso e mistificatorio.
Ma, ripeto, è una sensazione mia.
Il romanzo s'intitola: Il Mistero del Poeta. Infatti tutto è permeato di mistero, lo si respira nel paesaggio, nell'atmosfera, in certi improvvisi omissis che il protagonista vorrebbe rivendicare come segreti personali non rivelabili a chicchessia e tuttavia hanno il sapore di un calo d'ispirazione da parte dell'autore, coi quali sembra voler accentuare il mistero, forse con l'intezione che tutto debba far convergere verso la tragedia finale.
Interessante per quei tempi l'andare contro corrente almeno a parole, perorando il diritto dei disabili ad essere considerati uguali agli altri e, in più, mettendo in bocca a Violet quel che segue: «Ma vorrei che ne' tuoi futuri libri non vi fosse solo die vornehme Welt, come dicono qui, una elegante società di signore e signori; e nemmeno che ci fossero solamente contadini e operai; vorrei che tu prendessi in mano tante persone di ogni specie, come si mescolano o si toccano o almeno si vivono accanto nella vita reale. E vorrei un'altra cosa più grande assai; che tu fossi per questa gente il poeta della verità e della giustizia». (pag 289-290) che mi pare un chiaro, anche se timido, gesto di ribellione alle tendenze letterarie del tempo.
Il libro si chiude con la tragica morte di Violet e con il commiato dall'amica comune cui è destinato il racconto, quasi fosse il dettagliato resoconto d'una vicenda giudiziaria.
Se da un lato sembra che il Fogazzaro abbia subito l'influenza del Manzoni dei Promessi Sposi sviluppando sotto un altro registro l'idea che "Quel matrimonio non s'ha da fare" dall'atro pare presente anche l'eco di Edgar Allan Poe.
Impressioni su: GLI ULTIMI GIORNI DI MUSSOLINI di Pierre Milza
Non so quanto di romanzesco e quanto di storico ci possa essere in questo libro. Troppo martellante, unilaterale e soprattutto menzognera è stata fino ad oggi la storiografia ufficiale. Troppo di parte sia per credere in toto ad essa, sia per credere a chi la contesta radicalmente.
Non voglio mettere in dubbio la serietà d'intenti di chi affronta il problema della fine di Mussolini e del Fascismo, cercando una verità che dubito possa venire a galla, almeno finché vivono ancora gli ultimi fanatici corifei della Resistenza, ma una cosa posso dire, che a furia di mescolare il calderone delle menzogne più o meno volute, le contraddizioni emergono e con esse qualche ipotesi di verità credibile affiora.
È triste però constatare come le radici della nostra Repubblica affondino in un letame di menzogne con le quali si è voluto coprire lei macerie del Fascismo. Se non si avesse avuto paura della verità forse l'Italia di oggi sarebbe un po' meno corrotta e disunita.
Quel che m'è piaciuto di questo libro (saggio o romanzo che sia) è quel tocco di umanità che viene restituito a due esseri umani consapevoli della morte che li aspetta, non m'importa che si chiamino Benito e Claretta.