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IMPRESSIONI LETTERARIE 2016 1°

GENNAIO 2016

Impressioni su: I COMPAGNI DI SETTEMBRE di Alberto Vigevani

Più che una testimonianza sulla Resistenza questo libro mi è sembrato un'apologia retorica della Resistenza, forse prodotta da un linguaggio vecchio, aulico, contorto e ampolloso.

Sarà perché fuorviato dalla professione dell'autore, ma durante la lettura l'immagine istrionica e l'opera surreale di Salvador Dalì mi ha accompagnato senza interruzione.

L'autore mi è parso più intento ad esaltare il ruolo del partito comunista evidenziandone la parte che non a descrivere la guerra nella sua crudeltà e nella sua assurdità, mi pare lo dimostri l'aver ignorato totalmente le altre componenti della resistenza. Abbarbicandosi a due soli episodi estremamente marginali cui sembra aver partecipato non ne fa né un personaggio di spicco né un eroe, e il tentativo di voler poetizzare il tutto con qualche pennellata bucolico-lirica suona alquanto stonata e fuori tema.

Tutto sommato mi sembra una vicenda descritta a tavolino su vissuto altrui più che proprio, di cui l'autore pare voglia appropriarsi.

Un lavoro commissionato? Ma!

Impressioni su: LADRI DI MINUZIE poesie scelte di Alberto Nessi

In memoria della casa in mezzo ai prati (da "I giorni feriali "di Alberto Nessi)

[Adesso sei questo mucchio di sassi

rotolati qui quasi per caso, per un

rancore del vento, tuo vecchio alleato,

eppure quando l'erba era chiara di ranuncoli

e il ribes splendeva sulla siepe

-nella tua felice vecchiaia-

tu eri la casa in mezzo ai prati

e io il bambino selvatico che ogni giorno

veniva a trovarti per scoprire il mondo.

Ma per te non ho lacrime in serbo.

La tua memoria è un canto di passeri

di prugne azzurre scrollate dalla pianta

e non ho lacrime in serbo perché anch'io

sono la tua memoria di casa felice.

Vorrei soltanto che questi nel prato

fossero sassi franati dal monte

non le tue pietre ancora calde

di quella dolce luce meridiana.]

Ai tempi della scuola, uno dei lavori che consideravamo noiosi e ponderosi era quello della versione in prosa (basta cimentarsi a ridurre in prosa senza che vi sia più traccia di rime, di metrica, di assonanze e in maniera grammaticalmente, lessicalmente e sintatticamente corretta la sola prima terzina della Divina Commedia, per rendersi conto di quanto la cosa non fosse semplice).

Ebbene, se facessi lo stesso con la poesia suddetta ecco cosa ne uscirebbe:

[ADESSO SEI QUESTO MUCCHIO DI SASSI -- ROTOLATI QUI QUASI PER CASO, -- per un rancore del vento, tuo vecchio alleato, eppure quando l'erba era chiara di ranuncoli e il ribes splendeva sulla siepe - nella tua felice vecchiaia - tu eri la casa in mezzo ai prati e io il bimbo selvatico che ogni giorno veniva a trovarti per scoprire il mondo.

MA PER TE NON HO LACRIME IN SERBO. -- La tua memoria è un canto di passeri e di prugne azzurre scrollate dalla pianta e non ho lacrime in serbo perché anch'io sono la tua memoria di casa felice.

VORREI SOLTANTO CHE QUESTI NEL PRATO FOSSERO SASSI FRANATI DAL MONTE non le tue pietre ancora calde di quella dolce luce meridiana.]

Nulla che non abbia già fatto l'autore stesso.

Nell'una forma di scrittura come nell'altra è un brano discorsivo di colloquio con la vecchia casa umanizzata, un brano di prosa in cui di poetico vi è solo la parte che ho messo in maiuscolo, in quanto riducibile a versi veri e propri: Versi che nella forma (metrica) come nella musicalità sono e restano poesia.

Ma chiamare versi tutte le righe in cui si dipana l'intera poesia perché il componimento acquisti le caratteristiche della poesia: è un artificio da manovali.

Nell'originale la composizione è una poesia astrutturata

e nel contempo una prosa destrutturata.

Tanto per citare un autore conosciuto da tutti, l'inserire qualche verso in una prosa lo ha fatto anche il Manzoni, ma con questo non ha destrutturato la scrittura del romanzo spacciandolo per poema.

Sono sempre più convinto che il "parlar poetico" non sia sufficiente a fare della poesia, nonostante la ricerca contemporanea si orienti sempre più verso l'eliminazione di ogni abito che in passato ha caratterizzato la forma poetica. Non è l'abito che fa il monaco eppure senza l'abito non si riconosce il monaco, neanche quando "motu proprio" il monaco si dichiara tale perché puzza di autocelebrazione, d'imbroglio, di presunzione e neppure quando certi critici. per farsi strada sgomitando, si inventano nuove teorie e nuove scuole cercando novità in cui chiunque può facilmente sguazzare e pescano da questo stagno le rane che giustifichino le loro nuove teorie.

Altro aspetto che i contemporanei sembrano voler ignorare è che la poesia è anch'essa una forma di comunicazione; particolare, ma pur sempre comunicazione di pensieri, sentimenti ed emozioni e quando diventa talmente ermetica da apparire non solo astrusa, ma incomprensibile al lettore, appannaggio dei soli addetti ai lavori (ammesso che almeno a costoro dica qualcosa), è chiaro che non comunica niente. Se s'interrompe la via di trasmissione che mette in contatto lo scrittore col lettore, la poesia non è più arte perché perde la caratteristica di universalità.

La poesia è sempre stata un particolare modo di comunicare ben distinto dalla prosa, altrimenti che senso ha avere chiamato poesia un componimento che non ha nulla che lo distingua dalla prosa sia per contenuti che nella forma? E non basta incolonnare spezzoni di frasi e chiamarli versi, usare un'immagine contorta, una metafora assurda, l'uso di vocaboli che stridono, privi di qualsiasi legame col resto, quasi prodotti dislessici attribuendo loro valenza poetica. Mi chiedo se non siano dovuti ad una ontologica incapacità di esprimersi, a una ricercatezza barocca se non ad una carenza lessicale.

"IL PALMIRO/ AGIOSO NELLA GIACCA DI SUO PADRE" (da "Libera Uscita) quell'agioso, neologismo non necessario, non può essere considerato neppure una licenza poetica perché non è richiesto né dall'economia del verso, né dalla metrica, né dalla rima, né dall'inesistenza di un altro vocabolo corrente in grado di esprimere il concetto di ampiezza.

Non è che una pillola, ma sufficiente a fare chiarezza.

Per contro a queste considerazioni la mia libera associazione va a "Pianto antico" del Carducci: perfetto nella metrica, sublime nella sua poeticità, fantastico nella semplicità e nella proprietà del linguaggio, ineguagliabile nel trasmettere i sentimenti, le emozioni, lo stato d'animo ed il pensiero dell'autore, comprensibile a tutti, dal fanciullo all'anziano, dall'analfabeta al plurilaureato. In una parola: universale, come tutto ciò che ambisca a far parte dell'arte.

Mi limito a questo, perché commentare l'intera silloge del Nessi (da I Giorni feriali del 1969 alla più recente Galleria Minima) comporterebbe la stesura di un intero volume da cui, tecnicamente, non emergerebbe alcunché di diverso, se non una esasperante tendenza al più incomprensibile ermetismo, a riferimenti toponomastici locali non spiegati, ignoti a chi non sia del luogo e che rendono l'opera del Nessi un prodotto di territorio.

Nei contenuti l'autore manifesta un cronico ed inguaribile male di vivere. Solo tormento, dolore, miseria, morte, delusione, squallore in sé e intorno a sé. Peccato!

FEBBRAIO 20016

Impressioni su: ALCIDE CERVI - I MIEI SETTE FIGLI

di Renato Nicolai e introdotto da Luciano Casali

L'ho trovato bello, soprattutto commovente, ma per me non convincente. non perché non sia veritiero riguardo la vicenda dei fratelli Cervi, ma perché è una verità parziale.

L'uomo è un coacervo di bene e di male: non tutto bene come non tutto male e gli uomini non sono cambiati nel corso della storia. Dividere il bene dal male in maniera così netta talché il bene stia tutto da una parte e il male tutto dall'altra è alquanto ingenuo.

Se la vicenda umana della famiglia Cervi arriva a commuovere è perché bravo è l'autore, ma restano ambigue le sue intenzioni e di chi volle che così venisse redatto.

L'intento chiaramente propagandistico offusca la tragedia e non aiuta certo a chiarire tutti gli aspetti e le implicazioni della Resistenza come avvenimento storico.

Impressioni su: CINQUECENTO QUINTALI DI SALE di Renzo Zorzi.

È il titolo di un libro composto di due racconti: il primo di essi va sotto lo stesso titolo, il secondo, quello di gran lunga più interessate, ha per titolo: UNA STORIA DI GALLINE.

È la vicenda umana di tre personaggi ambientati durante la R.S.I. nella zona, detta la Bassa, tra Verona, Vicenza, Padova e la foce del'Adige, con estensione al delta del Po.

Per l'autore gli avvenimenti storici della lotta partigiana sono solo un pretesto in cui ambientare la vicenda umana dei tre personaggi: Marco,ladro di galline, Dino, ingegnere e Angela sua moglie coinvolti nella Resistenza.

Pubblicato dal Corriere della Sera nella collana "Biblioteca della Resistenza" e commentato da Marzio Breda come: «Un libro in parte autobiografico, che riassume una vicenda vera e documentata, divenuta presto patrimonio di tante narrazioni orali» non mi è ben chiaro quale dei due racconti costituisca la vicenda vera e documentata, se il primo, il secondo o entrambi. Comunque quello di gran lunga più interessante dal punto di vista narrativo è il secondo, la cui architettura è originale, nuova ed avvincente. È l'autore stesso che assume quattro identità differenti: quella di voce narrante d'insieme, unitamente a quella di ciascun personaggio di cui, come un attore provetto assume di volta in volta l'identità e racconta in prima persona la propria avventura nel continuum storico degli avvenimenti propri e altrui. Inizia Marco, ladro di galline che narra se stesso, continua con Angela, che s'inserisce nel racconto durante il furto. prosegue coralmente con Marco, Angela e Dino,per poi riscivolare in Marco, Angela e Dino che, continuando a raccontare ognuno se stesso, s'inseriscono ciascuno come complemento del vissuto degli altri due.

È l'autore che si cala di volta in volta in ciascuno dei suoi personaggi e ne scava i sentimenti e le emozioni assumendone l'identità diventando rocambolescamente ora Marco, ora Angela, Ora Dino, ora neutra voce narrante.

Un impianto manzoniano: una realtà storica che fa da ambiente e da sfondo, in cui degli esseri umani nascono, intrecciano le loro vite e operano, inconsapevoli strumenti di un disegno superiore, preoccupati di sopravvivere nella speranza di poi poter vivere.

Curioso l'episodio della battaglia del canale che mi ricorda tanto qualcosa di simile descritto da R. Adams nella "Collina dei conigli".

Chissà se Adams non abbia letto "Una storia di galline" facendone poi una trasposizione favolistica?

Stranamente uguali sono i concetti di libertà, di ribellione contro la dittatura, di organizzazione in bande, di tecnica di guerriglia, di rastrellamento e di rottura dell'accerchiamento combattendo all'estremità di un ponte su di un canale.

MARZO 2016

Impressioni su: LA VERA STORIA DELLE FOIBE - Una grande tragedia dimenticata di Giuseppina Mellace

Saggio storico di estremo interesse, specie per la documentazione in esso citata e riportata a stralci sulle vicende dell'ultimo conflitto in territorio istriano.

È centrato sulle dinamiche umane degli odi e dei rancori economici ed etnico - culturali più che sugli avvenimenti di un conflitto che fa da sfondo e da pretesto per spiegare ( mai per giustificare) uccisioni di massa e sparizioni di migliaia di esseri umani con l'intento e le modalità atte a cancellarne del tutto non solo l'esistenza, ma soprattutto la memoria. Operazione programmata di una pulizia etnica che pare faccia parte del DNA slavo, visto poi quanto è accaduto nel recente conflitto interetnico nei Balcani.

Se è pur vero che neanche l'Italia fra le due guerre possa dirsi del tutto estranea al tentativo di deslavizzazione dei territori, si deve però riconoscere che quella italiana fu un'operazione più di tipo coloniale che di eliminazione e sterminio prima e di epurazione ed espulsione attraverso la pratica di un esodo indotto e quindi forzato poi.

La vicenda delle foibe fu volutamente dimenticata sperando forse che diventasse una leggenda metropolitana e solo la disgregazione della Jugoslavia ha permesso che ciò non accadesse, ma è triste che solo a sessant'anni si cominci a far luce su di una tragedia tenuta colpevolmente nascosta per ragioni politiche nazionali ed internazionali, da una politica che continua a servirsi degli uomini anziché servirli. Ma qualunque possa essere la natura di un giustizialismo, nulla giustificherà mai il sadismo e la bestialità che si nasconde nei meandri dell'animo umano, quando, dietro il paravento della giustizia, cela la barbarie.

APRILE 2016

mpressioni su: COME VIAGGIARE CON UN SALMONE di Umberto Eco

In questa silloge di racconti Eco si rivela il vecchio marpione che, beffandosi di tutto e di tutti, trova il modo di esaltare se stesso e la propria abilità di affabulatore.

Questa raccolta di "bustine", apparse nella rubrica da lui curata sul settimanale "L'Espresso", il cui titolo prende le mosse dall'antica bustina di fiammiferi che si chiamava appunto Minerva, è una critica di costume esasperata, quando non esagerata, al punto da sembrare (o essere?) poco credibile.

Esagerata? Certamente se presa nel suo essere raccolta, perché è come la vecchia bustina di Minerva che ti s'incendiava tra le mani se non eri più che accorto nell'accendere uno dei suoi fiammiferi, lasciandoti solo cenere e dita bruciacchiate. Non più se letta settimanalmente, bustina per bustina, sulle pagine di un periodico che, tra un numero e l'altro, ti dà il tempo di dimenticare quanto letto la settimana precedente e, s'anche ne rimane un pallido ricordo, è quasi sempre un ricordo piacevole, condivisibile perché giustificato dall'insieme degli avvenimenti più o meno catastrofici dell'intera settimana.

Radunati invece in un unico libro descrivono l'autore come un essere perennemente scontento e patologicamente censore di tutto quello che lo circonda. Il che è deprimente, anche se "la pars construens" è intuibile fra le righe nel contrario di quello ch'egli stigmatizza a volte con virulenza.

È comunque un fatto che Eco sia pessimista per natura e per struttura e il suo pessimismo di fondo pervade un po' tutta la sua opera letteraria. Se lo sia stato anche nel vivere quotidiano non saprei dirlo, certo sarebbe difficile da accettare una dicotomia tra vita vissuta e vita letteraria in un grande mito come il suo, perché allora apparirebbe un essere sprezzante e quindi borioso.

Impressioni su: DIARIO PARTIGIANO di Ada Gobetti

La più seria,onesta ed umana descrizione della Resistenza e della vita partigiana, scevra di retorica e di banale trionfalismo.

Ada Gobetti si racconta e racconta la propria fede ed i propri ideali con semplicità e umiltà, perseguiti con coerenza contro tutto e tutti perfino nel dopoguerra. Non per niente fu la moglie di Piero Gobetti.

Impressioni su: I PICCOLI MAESTRI di Luigi Meneghello

Cosa c'è di più demenziale di una guerra? Sicuramente una guerra civile. Ebbene per la prima metà di Piccoli Maestri ho avuto l'impressione di leggere un racconto fra il demenziale e l'irriverente: la cronaca di una spacconata goliardica da festa delle matricole.

M'è parso che l'autore abbia sbagliato registro nel volere forzatamente descrivere gli aspetti comici d'una quotidianità drammatica. La stonatura m'è parsa polarizzarsi nella forzatura eroicomica come artificio letterario.

Quanto siamo lontani dal "Diario Partigiano" della Gobetti!

Contrariamente alla Corti non vi ho trovato poesia se non in rarissimi scorci paesaggistici; né ironia, ma sberleffo.

M'è parso che l'ossessione di voler essere antiretorico ad ogni costo abbia nuociuto notevolmente alla spontaneità. Il racconto per trequarti è privo di sentimento ma non di retorica avversione tout court nei confronti del fascismo.

Ma l'autore, in questo libro, non doveva essere antiretorico per suo stesso proponimento? Ogni altra emozione è stata soffocata e spenta. Di fronte alla morte non esprime neppure distacco, ma totale indifferenza. Il suo giudizio storico pecca di radicalismo fazioso perché si rifà solo agli errori del Fascismo ridicoleggiando l'Italia e gl'Italiani senza prendere in alcuna considerazione le motivazioni storiche che permisero l'avvento del Fascismo e che se l'Italia ebbe Mussolini, la Germania ebbe Hitler e la Francia Pétain, la Spagna Franco e il Portogallo Salazar, e che di nazionalismi di stampo fascista è tutt'ora pieno il mondo. Credo valga le pena chiedersi perché.

Come tutti i radicalismi, anche il suo non ammette che fra torto e ragione, fra giusto e sbagliato non esista un confine netto, non ci sia dicotomia, ma coesistano in una zona grigia in cui l'uno e l'altra si mescolano e si confondono sfumando. Eppure anch'egli, come tutti gli Italiani dal '21 al '43 fu fascista e non tra i più anonimi. Probabilmente se ne è vergognato. La persona onesta ammette i propri errori e li riconosce senza doversene vergognare, perché sbagliare non è un'onta. Si sbaglia solo inconsapevolmente, diversamente si delinque.

Impressioni su: Camilla Läckberg scrittrice svedese di gialli.

Di costei ho letto: IL SEGRETO DEGLI ANGELI e IL GUARDIANO DEL FARO.

L'idea di cogliere l'ispirazione da un fatto di cronaca è talmente sfruttato nella giallistica da essere considerato il normale serbatoio da cui trarre lo spunto per lavorarci di fantasia e costruirci attorno un romanzo. Non per niente la maggior parte degli scrittori di questo genere appartengono o provengono dal giornalismo o dal mondo che ruota attorno alla cronaca giudiziaria. Così pure sembra trattarsi della Läckberg, ma a distinguerla dagli altri sembra essere l'impalcatura dei suoi romanzi che chiamerei labirintici nell'architettura.

L'ispirazione è quasi espressamente dichiarata in quello che vuole essere il racconto di base scritto in corsivo, mentre la vicenda oggetto del romanzo dovrebbe essere la parte scritta in tondo. L'originalità della Läckberg sta nel fatto di avere spezzettato ed intercalato le due parti in modo da distrarre il lettore spezzettando e mescolando le due narrazioni in maniera del tutto arbitraria, ottenendo due risultati: uno positivo nell'aumentare il livello dell'attesa, procrastinando ancor più la soluzione, e uno negativo nel distrarre, ingarbugliare la vicenda e disorientare il lettore.

Come se non bastasse pare voglia dare uno spaccato ambientale aggiungendo personaggi, fatti e ambienti talmente marginali alla vicenda, quando addirittura estranei ed inutili, solo perché avvenimenti contemporanei a ciò che si vuol narrare. Le piccole azioni della vita quotidiana ripetute all'infinito appesantiscono solamente e rendono noiosa la lettura.

I suoi romanzi finiscono per avere così un'architettura barocca e pesante per eccesso di originalità.

Inutile dire che grammaticalmente ci si dimentica che il se ipotetico regge il congiuntivo imperfetto e non il condizionale, ma questa è una pecca ricorrente del traduttore non certo della Läckberg.

Riflessioni su delle impressioni (Igiene 02.05.2016 - 24.08.2016 - 09.2016)

Il voler comparare culture diverse per tracciare giudizi e stabilire gradi di valore è un azzardo fallimentare. Ogni individuo è uguale agli altri nella propria diversità, così ogni popolo con la propria cultura. Borges ed Eco sono depositari di un sapere immenso, ma non facciamone degli idoli, nessuno dei due è Gesù Cristo.

Per esempio Borges non è coerente né sincero quando afferma d'essere felice per la liberazione di Parigi da parte degli Alleati nel 1944. Tutta la sua opera è un'esaltazione del machismo, uno strizzare l'occhio alle dittature, un compiacersi delle loro peggiori caratteristiche guardandole con occhio cavalleresco dal gusto rinascimentale.

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Il linguaggio corrente del poeta è la metafora, la cui interpretazione viene lasciata al lettore senza alcuna spiegazione.

La metafora degli approdi dovrebbe essere chiara. L'approdo è il porto al quale una nave attracca, il luogo dello sbarco dell'esploratore che da lì parte per addentrarsi nel retroterra della cultura locale. Eco è italiano e Borges argentino. Entrambi sono dei pozzi di sapere, due grandi porti, due fari da ammirare, da studiare ma non da idolatrare. Il loro pensiero non è Vangelo.

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