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FRAMMENTI DI ACCIDIA

Frammenti di accidia

(Da una pagina di diario)

30 marzo 2011. Mi chiedo se abbia senso.

In settantaquattro anni non ho mai voluto scrivere un diario e ora "mi punge vaghezza" di farlo. Perché?

Misteri dell'animo umano.

Sono bisogni inutili, ma sgorgano dall'inconscio come necessità imprescindibili, inderogabili ed è doveroso il soddisfarli se non vuoi farti cogliere e sopraffare dall'ansia.

Hanno la stessa valenza di una tentazione che domini soltanto se l'assecondi.

Vero è che quel desiderio affiorò diverse volte nel corso degli anni.

Desiderio? Probabilmente no. Probabilmente dico, perché le cause che mi hanno spinto a cominciare ed a smettere possono essere molte. La prima è che non nacque come bisogno spontaneo bensì come compito suggerito, più propriamente imposto da un maestro. Il guaio è che le cose imposte non mi sono mai piaciute, neanche da bambino e mia madre lo sapeva bene. Neanche lei riuscì mai a farmi obbedire imponendosi.

Non sono un giacobino, nemmeno ribelle o "Bastian contrario" è che non mi va di fare cose volute da altri per cui mi è facile ignorarle dimenticandomi di farle. Infatti quel diario s'interruppe dopo i primi pensierini; quello come tutti gli altri che seguirono. Date queste premesse sono certo che neanche l'attuale durerà più di qualche diecina di pagine. Tuttavia eccomi con la penna in mano ad affrontare in campo aperto gli altri tabù che, allora come sempre, hanno fatto di me un individuo definito "intelligente sì, ma svogliato e distratto, negligente, con la mente sempre altrove".

Non sarebbe stato educato andar giù piatti col giudizio; a dire ai genitori che il loro figlio avrebbe potuto essere un tardone. Una maestra è anch'essa madre e si guarda bene dal ferire un'altra madre deprezzandole il figlio.

Svogliatezza, distrazione, negligenza: delicatezza tutta ottocentesca per dire quello che la psichiatria odierna oggi definirebbe con termini ben più brutali quali ritardo mentale, oligofrenia o autismo, borderline, dissociazione o altro per coloro che non nascono come prodotti di serie, perché, si sa, tutto viene incasellato approssimativamente nelle categorie conosciute al momento, salvo poi scorporare quel che proprio non quadra e collocarlo altrove in virtù di nuove scoperte. E su questo la psichiatria ha davvero un grande avvenire visto che ancora non esistono due cloni umani in grado di dare origine ad un prodotto seriale omologabile come norma assoluta e campione di riferimento.

Se la prima causa del lasciare le cose a metà o al non cominciarle del tutto è attribuibile al carattere, la seconda è sicuramente il pudore che ha come prima manifestazione la vergogna. E qui non ci si scappa, siamo a casa di Freud: Superio, Es, conflitto, ansia, angoscia, interiorizzazione, nevrosi, eventuale somatizzazione come manifestazione finale.

Ma che bello! Cosa c'entra con la noia e col piantare in asso un lavoro che mi ha stufato, per cui ho perso interesse?

Niente, perciò: «Arrivederci signor Freud, alla prossima occasione».

«Altolà, dove vai?

Zio Sigismondo c'entra, eccome se c'entra!

Cosa ne è del tuo Narciso? Lo ignori?

Non puoi scappare, amico; la vergogna nasce dal contrasto tra quel che sei e quel che l'etica comune dice dovresti essere: tra il tuo Es e il Superio collettivo. nasce dalla paura del rifiuto, dell'emarginazione e del declassamento ad una sottospecie. Nasce dal timore o dalla certezza di un giudizio negativo. Allora ti nascondi, meglio sarebbe che gli altri non sapessero che tu esisti, altrimenti ti vengono a cercare di proposito..

V'era e persiste un'intima repulsione a mettermi a nudo, non davanti a me stesso, perfettamente consapevole d'ogni atto e pensiero, ma davanti agli altri che, si sa, quando metti nero su bianco, muoiono dalla voglia di violare i segreti che vorresti custodire.

La brama di soddisfare una curiosità che permetta loro di assumere un atteggiamento critico, di emettere un giudizio di biasimo se non proprio di condanna, per giustificare se stessi, ergersi a Catoni e Mentori.

Fatica inutile, perché è sempre stata chiara in me la consapevolezza di essere ben misera cosa, trasgressore di otto su dieci dei comandamenti di Dio quando sono in pace con Lui o di Mosè quando sono arrabbiato con Dio.

Nudo uscii dal grembo di mia madre, io piccola cosa piagnucolosa. Poveri e nudi ci ha voluti il Padre e come risposta trasgressiva passiamo la vita vestiti e torniamo da lui vestiti e inscatolati per proteggere la nostra nudità.

Ma un conto è la nudità dell'innocenza infantile, il candore della natura e un altro la maliziosa nudità dell'adulto egocentrico e narciso. Eppure questo mio modo di essere che ho sempre strenuamente difeso trasuda da ogni mio scritto buono o cattivo che sia; più che "come polla sorgiva", direi come "vino nuovo in botte vecchia"

Nella prosa come nella poesia ho cercato di mettere il quotidiano, le cose semplici, pensieri, sentimenti, preoccupazioni, gioie, dolori, amore e odio, elevato e sordido, ridicolo e serio, privato e pubblico.

A che mi serve un diario?

Nonostante tutto il palcoscenico attira e a buttartici sopra furono i tuoi genitori, mi dico.

Ti piaccia o no sei sulla ribalta appena esci dall'utero, mio caro e il tuo narciso se ne compiace.

Ma la platea curiosa non si accontenta di quel che il copione dice dell'attore e pretende di saperne di più, di ficcare il naso nei suoi visceri.

In fondo quel tuo maestro faceva la stessa cosa; a fin di bene, per carità, ma intanto ambiva alle tue budella.

Avete mai pulito un animale? Un camoscio, una lepre, che so? un pollo o un coniglio?

Se sì, saprete che le budella puzzano e puzzano di merda.

Ebbene, il secondo motivo per cui credo di non essere mai riuscito a continuare un diario, è che quando cercavo di scavare sotto la superficie, il puzzo che ne usciva mi dava fastidio e se quel puzzo dava fastidio a me, figuriamoci agli altri. Il fatto che quel puzzo sia lo stesso che emanano i miei simili non basta a tranquillizzarmi e a farmi continuare. Allora il diario finisce lì, poco oltre dov'è cominciato.

Terzo motivo scoraggiante è che scrivere è faticoso. Non è facile cavare del sugo da uno stilo intinto nell'inchiostro. Più faticoso e difficile che scavare la roccia col piccone. E la fatica per un po' va bene, la si fa anche, ma che non duri troppo a lungo. Un diario come Cristo comanda dura invece una vita e pesa come un macigno se dentro ci metti tutto quello che fai, che pensi, che vorresti o non vorresti; che vedi e che senti. Se non sei sincero non è più un diario, se lo sei, appena lo hanno letto, perché questo è lo scopo per cui ti suggeriscono di farlo e per cui tu decidi di scriverlo, fai la fine del Cristo.

Queste credo siano le ragioni principali per le quali non sono mai riuscito a continuare un diario, ma non ho ancora detto perché ogni tanto mi vien voglia di stenderne uno.

Al di là delle sollecitazioni altrui, credo sia facile da individuare nel narciso che è in me, nel bisogno di protagonismo e nella gratificazione del riconoscimento che domina ciascuno di noi, ma non c'è filtro che mi protegga dal puzzo della verità fermentata; allora è meglio desistere e lasciare agli altri il mestiere di archeologi, la fatica e il sadico piacere di scavare nella mia vita.

Credo che tutte le motivazioni dette o non dette possano riassumersi in una sola parola: accidia.

Sissignori, riconosco d'essere un accidioso, è il solo odore di me che non m'importa lasciar annusare.

Però la tentazione è grande: la tentazione di ricominciare daccapo, la voglia di rimettermi in gioco e vedere fino a che punto sono in grado di sopportare il mio puzzo; il puzzo che esala il mio vaso di Pandora.

Se per vincere la riluttanza prendessi il discorso alla lontana? E ai sedimenti del fondo ci arrivassi piano piano, dopo essermi convinto che non ho nulla di cui vergognarmi perché tutti sono come me? Forse apprezzando l'aspetto positivo del mio guano arriverei a giustificare l'altra faccia della medaglia e mettere via il tutto con una scrollatina di spalle sussurrando a me stesso: «Di che ti preoccupi? Tanto così fan tutti!».

Sì, Ecco: prendere il discorso alla lontana. Non dalle quotidiane banalità, ma neanche da pensieri cosmici o cattedratica dialettica tra bene e male; neppure con moralismi da pulpito e neanche con becerume da osteria, ma con quel tanto di tutto che alberga nell'uomo, come se Io fossi un viandante che incontro per strada.

Narrare in terza persona è molto vantaggioso: è come parlare di un altro, le cui colpe o vergogne sono simili alle tue, ma non proprio le tue, dalle quali prendere le distanze perché vuoi illuderti che non ti riguardino, fino al punto di credere veramente che siano dell'altro.

È il nocciolo della dissociazione che sobbolle in noi, in ogni essere normale, come il magma di un vulcano che sfiata attraverso le fumarole della mistificazione, dei ben calcolati silenzi e delle pubbliche menzogne.

Narrarsi in terza persona è la medicina giusta: combatte i sintomi del male senza eliminarne la causa, ti protegge dai sensi di colpa e dalla vergogna, perché non denudi l'Io te stesso, ma l'altro te stesso, quello che il superio collettivo condanna.

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