Nonno, racconta!
II
C'era una volta …
«Nonno, perché dici sempre c'era una volta?» Chiese il nipotino androide.
Perché tutte le fiabe cominciano così, perché sono sogni, desideri dell'anima, avventure di personaggi irreali che vivono nella fantasia. Immagini speculari dell'essere; hanno suono di parole, corpo di parole, sono bolle d'aria che sgorgano dal limo del fondo e attraversano la palude del reale in cerca di libertà oltre la superficie. Vengono dall'abisso di un misterioso passato per perdersi lontano e ricongiungersi con l'azzurro del cielo.
"Antiquam exquirite matrem". Ricercate l'antica madre, suggeriva l'oracolo al profugo Enea e noi, più o meno consciamente, cerchiamo quotidianamente ciò che ci lega alle nostre origini. Esploriamo spazio e tempo per indagare la nostra identità, la nostra collocazione gerarchica nell'economia universale dell'essere. Non contenti di violare la storia cercando le radici genealogiche, profaniamo la vita stessa.
È l'albero della conoscenza che cresce accanto all'albero della vita e l'uomo se n'è fatto giardiniere con l'ambizione di sostituirsi a Dio.
La risposta data agli interrogativi esistenziali, a tutt'oggi, è soltanto un coacervo di ipotesi e non c'è scienza che finora abbia saputo penetrare il mistero. Il suo grimaldello apre interminabili sequenze di scatole cinesi, ognuna delle quali si rivela una sporogenesi di "perché?". L'orizzonte sta lì, sembra a portata di mano, sembra afferrabile e allora cammini più in fretta, ma l'orizzonte è sempre lì: vicino e irraggiungibile. Pensi: devo crescere, salire più in alto, scalare la piramide del sapere e lui, beffardo, si allontana.
L'ansia ti assale, diventa angoscia e fa male, prelude al panico. La risposta ansiolitica diventa imperativa, necessità vitale sia pure palliativa purché sufficientemente surrogante. Ti rifugi nel mito, nell'illusione; ti ubriachi di rituale.
Quanti sono i miti?
Impossibilità di trafiggere il tempo, di penetrare al di là dell'oggi, del semplice istante in cui tu sei.
Historia magistra! Volgi momentaneamente le spalle al futuro impenetrabile per guardarti indietro perché indietro è la tua storia, la storia della tua famiglia, della tua tribù, del tuo popolo, della tua razza, della tua specie; indietro è la storia stessa della vita. Lì troverai le tue radici perché fatto, realtà concreta, accadimento.
Ma questa via a senso unico indagabile solo a ritroso è un interminabile elenco di fatti e misfatti umani, di soprusi, tirannie, schiavismi, genocidi mitizzati nel nome di ideali quali Dio, Patria, giustizia, libertà, indipendenza, uguaglianza, civiltà, per i quali l'uomo ha provocato più morti e distruzione delle calamità naturali da che esiste il pianeta. Scopri che questo magistero è tutto un equivoco, perché i figli dei figli di "Ardi", dopo sei milioni di anni ancora non sanno che cosa ci stiano a fare su questa Terra.
Sono queste le radici in cui deve riconoscersi l'uomo?
Come fai a sapere quel che è giusto o sbagliato se non conosci il ruolo che ti è stato assegnato nel progetto natura?
Dio esiste o non esiste? E se esiste, cosa vuole da me?
Non è forse pilatesco l'affermare che non esiste per il fatto che non si riesce a vederlo, a sentirlo, a dialogare fisicamente con Lui, a prenderlo magari per il bavero?
Cambia forse qualcosa chiamandolo Caos? Sì, l'etichetta, non la sostanza.
Ecco allora che non potendolo vedere, toccare, sentire, annusare, gustare finiamo per immaginarcelo, ma è solo un Dio personale, un Dio emotivo, un Dio filosofico o letterario, ma sempre una proiezione umana: un Dio che diventa cattolico, ortodosso, protestante, musulmano, buddista, indù, taoista, confuciano, animista e altro. Un Dio polimorfo come l'essere umano.
Io Dio non lo conosco, né, come uomo, mai lo conoscerò, ma per il fatto che esisto e che non so perché esisto, concludo che Dio c'è, ma è tutt'altra cosa.
Non è blasfemia né pretestuosa demagogia anarchica per legittimare le manifestazioni più aberranti dell'animo umano. Nessuno nega l'intrinseca nobiltà degli ideali se non fossero confinati nelle roccaforti politico-geografiche, di razza, di credo e di costume, se fossero universalmente antropologici e non pretesti per erigere muri discriminanti all'interno della specie, se non se ne facesse un uso deprecabile.
Radici storiche non sono solo i legami affettivi che ti legano alla terra natale, alla consanguineità parentale, alle persone con la pelle del tuo stesso colore con le quali condividi usi, costumi, abitudini e modi di concepire la vita, ma i legami che ti legano alla Terra tutta oltre la siepe del tuo orticello, oltre il cancello del tuo cortile; sono i legami che condividi con la vita tutta: la vita del tutto. Radici che si possono scoprire solo abbattendo la muraglia dell'antropocentrismo per aprirsi sull'orizzonte biocentrico, in cui tutto ruoti attorno alla vita e alla sua ragione di essere nel Cosmo.
Dunque, c'era una volta una coppia di scimmie brutte, col sedere pelato che spiccava roseo tra i peli del resto del corpo.
« Nonno, perché avevano il sedere pelato?»
Perché le rocce su cui erano solite sedere erano così ruvide che avevano consumato loro il pelo. Ma se m'interrompi, come faccio a raccontarti la fiaba?
Allora, queste scimmiette erano brutte, ma proprio brutte, non per i peli che coprivano tutto il corpo, ma per quel rosa che sembrava un girasole tutte le volte che scendevano dagli scogli per procurarsi il cibo. Pareva ci prendessero gusto a sbattere il loro sedere in faccia agli uomini. Se lo facessero apposta o meno gli scienziati non l'hanno ancora appurato nonostante l'insolenza delle scimmie sia stata più che mai certificata. Le bertucce non hanno coda ma camminano anch'esse a quattro mani, così mettono il sedere sempre in bella mostra.
Erano mamma e figlia. La mamma si chiamava Occhidolci perché aveva due occhioni capaci di intenerire chiunque. La figlia invece aveva nome Smorfietta e come tutte le cuccioline era capricciosa, vivace, disubbidiente, curiosa e a volte maleducata e impertinente. Si dice che vivessero libere e felici su di un promontorio affacciato sul mare dove Ercole aveva eretto due grandi colonne per ammonire gli uomini che oltrepassandole avrebbero incontrato la morte. Una colonna si chiamava Gibilterra l'altra Atlante, tra le due uno stretto braccio di mare a fare da confine fra l'oceano e il Mare Nostro.
La patria delle scimmie era sia di qua che di là dello stretto perché il vecchio della rocca mi ha raccontato che alle origini questo non c'era ed era una terra unica che un bel giorno fu divisa dal mare separando quella famiglia di primati in due diverse comunità. Le nostre bertucce però continuarono a vivere libere sia sul promontorio di Gibilterra che sui monti dell'Atlante per via di un certo patto stipulato tra Nettuno dio del mare con Gea per avere il diritto di passaggio. Da allora però la libertà delle prime non fu più uguale a quella delle altre.
Infatti un bel giorno giunsero a Gibilterra dei marinai spregiudicati calati dalle nebbie pelagiche del Nord, marinai molto ingordi che si resero famosi per aver inventato la pirateria, per mezzo della quale rapinavano tutte le navi che non battevano la stessa bandiera, che colonizzavano con la prepotenza le popolazioni che li accoglievano generosamente come ospiti, che commerciavano praticando la tratta degli schiavi. Un modo facile per arricchire approfittando del lavoro, della bontà, della debolezza e anche della dabbenaggine altrui. Esperti di geografia militare capirono quanto fossero strategicamente importanti le colonne d'Ercole per tenere sotto scacco tutte le popolazioni che si affacciano sul Mediterraneo. Così sbarcarono a Gibilterra. Siccome, in quanto a pelo sullo stomaco, a gusti e abitudini assomigliavano moltissimo ai primati che l'abitavano, sentendosi perfettamente integrati con le scimmie del posto si appropriarono definitivamente del territorio col pretesto, dice una leggenda popolare, di garantirsi una spiaggetta esposta al sole mediterraneo per curare i geloni ai loro Lord.
Nettuno si disinteressò della cosa perché quell'appropriazione indebita semmai riguardava Gea e non impediva né il flusso dell'acqua, né il transito dei pesci.
Gea, informata da Apollo, disse che non valeva la pena occuparsene perché era una faccenda tutta privata fra le scimmie e gli uomini loro discendenti. Insomma era una bega legata a una questione di eredità.
Per sottomettere più facilmente la popolazione dei primati gli invasori offrirono loro banane, frutta, e cibo molto più appetitoso dei vermi, degli insetti e degli scorpioni che le bertucce erano abituate a procurarsi smuovendo le pietre, ma per niente adatto alla loro salute. Permisero loro anche di impadronirsi liberamente di macchine fotografiche, borsette, ciondoli colorati, abiti e tutto quanto appetissero per gioco o per divertimento, perfino difendendole dal giusto risentimento dei derubati purché non lasciassero mai il promontorio. I sapienti dicevano che mago Merlino avesse fatto un incantesimo garantendo agli invasori il possesso di Gibilterra fino al giorno in cui l'ultimo macaco che vi abitava non fosse morto. Anche questa era una menzogna fatta circolare ad arte dagli usurpatori per giustificare il loro presunto diritto di possesso.
I pirati erano entusiasti, dicevano: questi abitanti sono proprio come noi, si appropriano liberamente di tutto senza neanche chiedere il permesso, possiamo manipolarli come vogliamo con le lusinghe.
Un bel giorno Pietra Gioiosa, primo ministro del Regno, e quindi capo della Filibusta, avendo notato che i macachi della Rocca, ammalandosi sempre più spesso andavano riducendosi di numero, preoccupato per la catastrofe ventilata dalla profezia di Merlino, ordinò che fossero equiparati ai sudditi di Sua Maestà e che godessero degli stessi privilegi degli uomini, quindi libertà di movimento, di assistenza sanitaria pubblica, di appropriazione e furto e altro ancora.
Ritenendo che responsabili della moria fossero gli sbalzi di temperatura dovuti al cambio delle stagioni, forte dell'esperienza che lui si copriva le natiche per proteggerle dal freddo, ordinò che anche le scimmie di Gibilterra indossassero i pantaloni. Fu in quella occasione che Smorfietta, invaghitasi di un paio di calzoncini rossi, se ne appropriò e pavoneggiandosi come una diva, saltava da un albero all'altro dei viali del parco cittadino.
La moria però non cessò.
Pietra Gioiosa, seduto alla scrivania del governatorato, accese più di un avana chiedendo la soluzione del problema ai cerchietti di fumo che svolazzavano verso il soffitto, ma, non ricevendo risposta, optò per la soluzione quantitativa, l'unica che avesse imparato a scuola e nella quale era diventato maestro. Ordinò che la popolazione di scimmie venisse numericamente reintegrata razziando sulle pendici dell'Atlante gli esemplari mancanti.
La tratta delle scimmie non è che, nella sostanza, differisse molto dalla tratta dei negri, nel frattempo dichiarata illegale e quindi bandita, ma il cavillo giuridico stava nella considerazione che le scimmie non erano equiparabili agli esseri umani anche se appartenenti allo stesso albero genealogico. Erano merce e quindi oggetto di possesso e se a Gibilterra avevano il privilegio di essere considerate suddite di Sua Maestà con tutti i vantaggi che ne seguivano era solo grazie alla profezia di Merlino e alla paura che Pietra Gioiosa aveva di perdere il possedimento di Gibilterra e con esso la poltrona di Primo Ministro.
Continua