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IMPRESSIONI LETTERARIE 2016 2°

MAGGIO 2016

Impressioni su: DIARIO PARTIGIANO di Ada Gobetti

​La più seria,onesta ed umana descrizione della Resistenza e della vita partigiana, scevra di retorica e di banale trionfalismo.

Ada Gobetti si racconta e racconta la propria fede ed i propri ideali con semplicità e umiltà, perseguiti con coerenza contro tutto e tutti perfino nel dopoguerra. Non per niente fu la moglie di Piero Gobetti.

Impressioni su: I PICCOLI MAESTRI di Luigi Meneghello

Cosa c'è di più demenziale di una guerra? Sicuramente una guerra civile. Ebbene per la prima metà di Piccoli Maestri ho avuto l'impressione di leggere un racconto fra il demenziale e l'irriverente: la cronaca di una spacconata goliardica da festa delle matricole.

M'è parso che l'autore abbia sbagliato registro nel volere forzatamente descrivere gli aspetti comici d'una quotidianità drammatica. La stonatura m'è parsa polarizzarsi nella forzatura eroicomica come artificio letterario.

Quanto siamo lontani dal "Diario Partigiano" della Gobetti!

Contrariamente alla Corti non vi ho trovato poesia se non in rarissimi scorci paesaggistici; né ironia, ma sberleffo.

M'è parso che l'ossessione di voler essere antiretorico ad ogni costo abbia nuociuto notevolmente alla spontaneità. Il racconto per trequarti è privo di sentimento ma non di retorica avversione tout court nei confronti del fascismo.

Ma l'autore, in questo libro, non doveva essere antiretorico per suo stesso proponimento? Ogni altra emozione è stata soffocata e spenta. Di fronte alla morte non esprime neppure distacco, ma totale indifferenza. Il suo giudizio storico pecca di radicalismo fazioso perché si rifà solo agli errori del Fascismo ridicoleggiando l'Italia e gl'Italiani senza prendere in alcuna considerazione le motivazioni storiche che permisero l'avvento del Fascismo e che se l'Italia ebbe Mussolini, la Germania ebbe Hitler, la Francia Pétain , la Spagna Franco e il Portogallo Salazar, e che di nazionalismi di stampo fascista è tutt'ora pieno il mondo. Credo valga le pena chiedersi perché.

Come tutti i radicalismi, anche il suo non ammette che fra torto e ragione, fra giusto e sbagliato non esista un confine netto, non ci sia dicotomia, ma coesistano in una zona grigia in cui l'uno e l'altra si mescolano e si confondono sfumando. Eppure anch'egli, come tutti gli Italiani dal '21 al '43 fu fascista e non tra i più anonimi. Probabilmente se ne è vergognato. La persona onesta ammette i propri errori e li riconosce senza doversene vergognare, perché sbagliare non è un'onta. Si sbaglia solo inconsapevolmente, diversamente si delinque.

Impressioni su: Camilla Läckberg scrittrice svedese di gialli.

Di costei ho letto: IL SEGRETO DEGLI ANGELI e IL GUARDIANO DEL FARO.

L'idea di cogliere l'ispirazione da un fatto di cronaca è talmente sfruttato nella giallistica da essere considerato il normale serbatoio da cui trarre lo spunto per lavorarci di fantasia e costruirci attorno un romanzo. Non per niente la maggior parte degli scrittori di questo genere appartengono o provengono dal giornalismo o dal mondo che ruota attorno alla cronaca giudiziaria. Così pure sembra trattarsi della Läckberg, ma a distinguerla dagli altri sembra essere l'impalcatura dei suoi romanzi che chiamerei labirintici nell'architettura.

L'ispirazione è quasi espressamente dichiarata in quello che vuole essere il racconto di base scritto in corsivo, mentre la vicenda oggetto del romanzo dovrebbe essere la parte scritta in tondo. L'originalità della Läckberg sta nel fatto di avere spezzettato ed intercalato le due parti in modo da distrarre il lettore spezzettando e mescolando le due narrazioni in maniera del tutto arbitraria, ottenendo due risultati: uno positivo nell'aumentare il livello dell'attesa, procrastinando ancor più la soluzione, e uno negativo nel distrarre, ingarbugliare la vicenda e disorientare il lettore.

Come se non bastasse pare voglia dare uno spaccato ambientale aggiungendo personaggi, fatti e ambienti talmente marginali alla vicenda, quando addirittura estranei ed inutili, solo perché avvenimenti contemporanei a ciò che si vuol narrare. Le piccole azioni della vita quotidiana ripetute all'infinito appesantiscono solamente e rendono noiosa la lettura.

I suoi romanzi finiscono per avere così un'architettura barocca e pesante per eccesso di originalità.

Inutile dire che grammaticalmente ci si dimentica che il se ipotetico regge il congiuntivo imperfetto e non il condizionale, ma questa è una pecca ricorrente del traduttore non certo della Läckberg.

​Impressioni su: A PIEDI di Paolo Rumiz

Diario di viaggio: sensazioni, impressioni, riflessioni di un pellegrino della memoria durante una camminata di sette giorni attraverso i resti di un'Istria georgico-bucolica retaggio d'altri tempi.

Rumiz è lo scrittore contemporaneo a me più congeniale; l'anima più vicina alla mia: specchio dei miei pensieri, desideri e sentimenti. I suoi scritti sono il mare, il bosco, la terra, la storia; il fluido in cui più d'ogni altro fluido amo immergermi.

Rumiz è lo scrittore che sa esprimere quel che io vorrei, ma non so esprimere.

​Impressioni su; MORIMONDO di Paolo Rumiz

Viaggio reale e surreale lungo un fiume che è liquido amniotico, vita concreta e simbolo, divinità e creatura. realtà che provoca la fantasia e fantasia che, inesorabile, prende le misure alla realtà esaltandone le antinomie: bellezza e squallore, rigoglio e degrado, morte e resurrezione.

Il Po: dio serpente; la Po: acqua madre; Paolo Rumiz: autore intrigante dalla personalità complessa. Uomo irrequieto, nomade come l'acqua del fiume, come la bora che soffia sul mare della sua Trieste. Paolo come il suo omonimo di Tarso predicatore di pace e di fraternità, camminatore come lui, missionario di un sogno di fratellanza ecumenica. Predicatore diverso solo perché con gli strumenti di tempi diversi.

Narrazione che, come la lente di un pendolo, oscilla tra passato e presente, tra i ruderi abbandonati della storia ed un presunto progresso-regresso. E il fiume che vi passa sopra, sotto e attraverso. Fiume che, come la vita che rappresenta, si gonfia, travolge e stravolge e che quando si stanca, si accascia mettendo a nudo i suoi scheletri: le sue ferite e gl'insulti ricevuti. Passato e avvenire che, attraverso il presente, si evolve e ricicla come l'acqua del fiume che evapora e ritorna sempre uguale e diversa, ma passa e non ritorna, mentre l'uomo vi naviga sopra; ride ed irride da irresponsabile imbecille.

Alla fine la catarsi di fronte all'infinito: il mare. La pace senza limiti d'orizzonte, ma ancora un "ire", un andare pellegrino non più verso l'infinito, ma nell'infinito.

​Impressioni dopo aver letto: IL BENE OSTINATO di Paolo Rumiz

Il libro altro non è che un lungo servizio giornalistico e il giornalista Rumiz mi piace perché non ha l'assurda pretesa d'essere asettico e imparziale; cattedratico al di sopra di ciò che divulga. Non fa propaganda, ma fa conoscere. È uomo, con le sue simpatie e antipatie, coi suoi principi cui non ama derogare, con ideali cui sembra credere fermamente. Nonostante le sue idiosincrasie non infierisce; puntualizza, precisa, commenta, approva e disapprova, ma, cosa rara, rispetta e non ha la presunzione della ragione ad ogni costo. L'ombra di pessimismo che pervade i suoi scritti non deprime ma fa riflettere. Si siede a tavola col lettore: l'illustre sconosciuto con cui conversa e socializza sorseggiando idealmente una "ombra de vin".

​Impressioni su: È ORIENTE di Paolo Rumiz

Rumiz definisce questo libro: «Un mix di lavoro giornalistico e viaggi "in libera uscita"» ed è evidente che ami viaggiare con ogni mezzo, possibilmente lento, meglio se faticato a piedi o in bicicletta; comunque fra i mezzi di trasporto predilige chiaramente il treno.

Viaggiare per vedere, riflettere, meditare, socializzare. E cosa c'è di meglio di un «Viaggiare stando?»

Viaggi vigili diurni in terraferma mescolati ad altri viaggi in un mix difficilmente districabile in concomitanza a viaggi onirici notturni sui mari. Viaggi paralleli tra fantasia, inconscio e realtà che fanno da controcanto l'uno all'altro. Uomo di confine, pendolare nel corpo e nell'anima fra occidente ed oriente, succubo della sua doppia origine.

Nel sogno Rumiz si muove con l'acqua e nell'acqua in cui l'inconscio ci sguazza con la nostalgia del materno liquido amniotico, il tutto in un gioco di ricordi e di associazioni stupende, nuove e imprevedibili.

Sui contenuti del suo giornalismo mi sono già espresso altrove.

GIUGNO 2016

​Impressioni su: TRANS EUROPA EXPRESS di Paolo Rumiz

Viaggiare per conoscere, conoscere per viaggiare. L'essere umano pare sia nato nomade, anzi è nato nomade e sarebbe sempre stato tale se un giorno non avesse tradito la propria natura.

Questo mi pare voglia suggerire il bisogno inquieto e ricorrente che spinge Pavel Petrovič Rumiz ad indossare scarpe e zaino per percorrere itinerari sempre nuovi alla ricerca forse di se stesso più che luoghi geografici, storici e politici.

Rumiz il viaggiatore, il marinaio che col pretesto di fare il punto nave anche quando arranca sui monti, sulle strade ferrate o asfaltate non fa altro che cercare di collocare se stesso nello spazio, nel tempo e nella storia. Forse anch'egli va cercando il primordiale rapporto con l'uomo come suggeriva Diogene, il suo legame con la terra madre illimitata, senza l' artificio di confini, di barriere separatrici.

Un viaggio lungo il meridiano da Rovaniemi ad Istambul attraverso una natura a volte incontaminata ed altre frantumata e deturpata dai ruderi dell'ingordigia umana, come volesse esorcizzare, cancellare idealmente i confini che separano l'Est dall'Ovest, che proditoriamente tagliano in due la comune madre Europa.

​Impressioni su: L'ITALIA IN SECONDA CLASSE di Paolo Rumiz

Un altro viaggio in treno torno torno all'Italia dello squallore. Rumiz in questo vagabondare lungo le periferie dello Stivale vede e documenta solo il rovescio della medaglia. Peccato.

​Impressioni su; LA COTOGNA DI ISTAMBUL - BALLATA PER TRE UOMINI E UNA DONNA di Paolo Rumiz

Rumiz definisce questo suo libro una ballata, ma, per quel che ne so, la ballata è una composizione poetica in versi endecasillabi o settenari rimati, destinata al canto. Essa infatti si compone di un ritornello introduttivo che viene ripetuto dopo ogni strofa o stanza (per questo si chiama poi ripresa), in un gioco di rime il cui schema di base è: ABBA sia per il ritornello introduttivo,sia per la ripresa; CDCD per la prima stanza, DEEA per la stanza successiva e ABBA per la ripresa (la rima finale dell'ultima stanza riprende quella iniziale della ripresa).

ABBA

CDCD

DEEA

ABBA

Mi risulta anche che la ballata abbia sei varianti, tutte riguardanti la ripresa e solo essa:

1) grande

2) mezzana

3) minore

4) piccola

5) minima

6) stravagante

La "COTOGNA DI ISTAMBUL", definita ballata, non rientra in nessuna di queste varianti, perché allora chiamarla ballata se è una narrazione in versi endecasillabi liberi ? Fra l'altro con ritmo disomogeneo nella successione metrica, dove iati e dittonghi non sempre si amalgamano con la cadenza del verso ?

Anziché ballata mi parrebbe più consono chiamarla poema amoroso.

Il linguaggio è moderno, plurilingue, direi ecumenico, se vogliamo, anche adatto ai tempi attuali di mescolanze etniche, ma l'esubero di vocaboli stranieri ostacola la lettura e ne rende difficoltosa la comprensione a qualunque lingua appartenga il lettore, che non è tenuto ad essere poliglotta.

Bene l'avvertenza finale dell'autore sulla corretta pronuncia dei termini slavi, ma non basta; meglio sarebbe stato che l'avesse collocata all'inizio anziché alla fine dell'opera, avrebbe reso la lettura successiva più scorrevole.

Ribadisco la predilezione dell'autore per tematiche fortemente drammatiche soffuse di malinconia, che in questo libro vanno aldilà del pessimismo, fino a rasentare le soglie della depressione. Se, fattane una riduzione teatrale, venisse affidato ad un buon musicista, potrebbe uscirne un eccellente melodramma moderno.

Buona la padronanza dell'endecasillabo, anche se qua e là eterodosso.

Inutile dire che, qualunque sia la tematica affrontata da Rumiz, la scelta ha sempre l'impronta del viaggio.

Insomma, la lingua batte dove il dente duole.

Impressioni su: LA SECESSIONE LEGGERA - DOVE NASCE LA RABBIA DEL PROFONDO NORD di Paolo Rumiz

È un'analisi socio-politica caustica, ma appassionata; un linguaggio veemente da tribuno che prevale sulla discorsiva pacatezza del Rumiz narratore.

È però strano trovare tanta italianità in un uomo di frontiera e più che altro di frontiera italo-austro-slava. Uno che si autodefinisce di sangue misto, ma è lo spirito della grande madre generatrice che l'attira e l'affascina: l'acqua, ossia l'idrografia padana che rappacifica lui, figlio dell'Adriatico, con l'entroterra terricolo. L'acqua, liquido amniotico in cui germoglia dovunque la stessa vita, acqua che nel contempo divide e unisce le terre che bagna e che connota ogni opera di Rumiz.

A volte nella sua analisi politico-antropologica pare contraddirsi usando gli stessi argomenti per spiegare lo stesso fenomeno che si manifesta in contesti diversi, ossia la stessa causa che produce effetti contrari o cause diverse che producono il medesimo effetto.

Assioma che sta alla base della sua analisi è invece il teorema con cui dimostrare che sia il territorio a forgiare il comportamento umano e non viceversa, nonostante i due fenomeni nella realtà s'influenzino reciprocamente in una spirale di causa ad effetto. Lui insiste nel voler dimostrare che a condizionare il modo di pensare e di agire, lo sviluppo economico o il degrado, l'apertura o la chiusura sociale, il pluralismo o il particolarismo sia soprattutto la diversità del territorio: della montagna chiusa, arroccata, egocentrica, integralista dalla pianura aperta e cosmopolita; montagna dove il campanile, la parrocchia e il clero locale, il municipio, si contrappongono al centralismo papale e statale e alle loro gerarchie intermedie più presenti in pianura, assumendo posizioni di rottura.

A fare da confine tra egoismo e condivisione ( Nord - Sud / Pedemontania e pianura / bianco fiore-bandiera rossa/ villaggio-città) il fiume, che diviene elemento di separazione concreta non solo virtuale e che con le sue piene travolge i ponti, la cui funzione invece è quella di unire le due sponde, non solo materialmente ma soprattutto comunitariamente; il fiume, la cui aridità dovuta all'ipersfruttamento idrico sembra rappresentare il dilagare dell'ignoranza, prodotti comuni d'un benessere troppo facilmente e rapidamente acquisito; un crescere della ricchezza non accompagnato da un contemporaneo e pari sviluppo culturale, un abbandonare il territorio per rincorrere l'effimero denaro. Così egli spiega il populismo leghista e i populismi più o meno nazionalistici e xenofobi fiorenti al Nord sui terreni dove prima regnava la Balena Bianca. Populismi che si sfrangiano a mano a mano che si scende verso Sud; nazionalismi xenofobi che analogamente fioriscono e s'ingrossano a mano a mano che si sale verso il Nord Europa. Definirei il Rumiz di questo libro con un paradosso: illustratore contradditorio delle italiche, oltreché umane contraddizioni, ma non può essere che così, perché Rumiz è figlio dell'Adriatico, un mare che. come il Po, unisce e contemporaneamente divide chi abita le sue sponde.

LUGLIO 2016

Impressioni su: MASCHERE PER UN MASSACRO, di Paolo Rumiz.

Anche in questo lavoro, procedendo sullo spartiacque tra menzogna e verità della propaganda mediatica, Rumiz analizza le cause prossime e remote che determinarono la guerra dei Balcani dopo la caduta del muro di Berlino. Guerra che definisce: "una ben orchestrata operazione gattopardesca" condotta sotto gli occhi ingenui (?) della comunità internazionale. Peccato che questa concertazione bellicosa sia stata scritta ed orchestrata non sulle note di una partitura diplomatica, ma sulla pelle di una popolazione ignara ed inerme. Guerra etnica? Un pretesto, sostiene Rumiz. Guerra nazionalistica? Neppure, anche se combattuta sullo sfascio di uno Stato Jugoslavo tenuto insieme dal collante di un titoismo che inevitabilmente si disintegra con la morte del leader e col naufragio del comunismo come teoria economica e sociale. Quale sarebbe allora la motivazione di fondo? La solita se ci si chiede cui prodest scatenare una guerra: la ragione economica. Ma perché gattopardesca? Perche mirante a riciclare una classe di potere che altrimenti sarebbe dovuta sparire, cosicché "cambiando tutto, tutto rimanesse come prima"

Interessante e del tutto nuova è l'interpretazione che Rumiz dà alla dinamica degli eventi: non cristiani contro musulmani, non cattolici contro ortodossi, non moschee contro chiese ritenuti pretesti di facciata, ma montagna contro pianura (il tema a lui caro), tribalismo montano contrapposto al cosmopolitismo urbano, primitivismo contro civilismo, sottoproletariato arcaico contro borghesia cittadina. Guerra combattuta all'interno di ogni etnia non etnia contro etnia, ma bosniaci di montagna contro bosniaci di città, croati contro croati, serbi contro serbi per espellere il corpo straneo di una borghesia culturale che, con la globalizzazione avrebbe inevitabilmente emarginato la vecchia "nomenklatura". Il saccheggio sistematico delle proprietà dei vinti e dei fuggiaschi di medioevale memoria sembra confermarlo.

Un punto di vista quello di Rumiz da non scartare a priori, anche se originale, perché la verità storica sta sempre dietro la facciata dell'ufficialità. Ma, dietro il buio di una finestra chiusa illuminata solo dall'esterno, le verità nascoste ed invisibili possono essere molte anche se il vetro, di per sé, è trasparente.

​Impressioni su: TRE UOMINI IN BICICLETTA di Paolo Rumiz

Un altro viaggio nello spazio e nel tempo e ancora verso oriente. Rumiz, il triestino irrequieto che non trova terraferma, in cerca della propria identità,e non si capisce se più culturale o etnica. Rumiz che pare ondeggiare come gli uomini di mare quando sbarcano, perché, abituati al rollio delle tolde, sentono o credono di sentire rollare anche la terra che calpestano e faticano ad abituarsi alla sua immobilità e, quando ciò accade, ecco che il demone del mare solletica loro le piante dei piedi e devono ripartire: "Portare a spasso il bambino che è in loro", non importa come né dove; se non come i marinai, con qualsiasi mezzo purché lento, facendosi guidare dal sole e dalle stelle, inseguendo le proprie emozioni come un irraggiungibile miraggio.

Oriente da riabilitare quasi ossessivamente dall'accusa d'essere l'origine di ogni male e come provarlo se non col fatto di immergervisi a capofitto nella forma più inerme? Come smitizzare tutti i tabù, i preconcetti se non potendo dire: non è vero. Quel che si dice è solo una gretta menzogna, perché io ci si sono stato e questi due con me, e nulla di ciò ci è mai accaduto.

Lo fa portandosi dietro due ignari testimoni: un vignettista e un professore, (l'umorismo e la cultura) che finge d'essere costretto a seguire nell'avventura dopo però averli provocati a imbarcarcisi.

Impressioni su: LA LEGGENDA DEI MONTI NAVIGANTI di Paolo Rumiz

Tenere Rumiz lontano dall'acqua è un'impresa ciclopica, direi impossibile. Infatti dove non c'è se la inventa fino ad immaginare la solida penisola che più solida non può essere, come una specie di transatlantico o una gigantesca balena fluttuante nel Mediterraneo sul dorso della quale lui naviga concretamente a pelo del cielo, che altro non è che il mare alla rovescia, a bordo di un relitto del '53: una topolino.

Per il resto, il mare in cui naviga è quello dei suoi pensieri e delle sue considerazioni sul degrado e sull'abbandono sia geologico che antropologico: un altro suo "mare", ed è il secondo, dal quale è impossibile sbarcarlo.

Rumiz uno scrittore che se non esistesse bisognerebbe inventare, anche se affoga nel "mare" (il terzo) di un pessimismo senza speranza.

Nel descrive le piaghe che affliggono il Nord-Est ha finito per uccidere in me la nostalgia di un mondo perduto, tanto che non troverò più i luoghi della mia infanzia, neppure negli abissi della fantasia e dell'inconscio. Veneto addio, non esisti più, oggi tu sei ben altra cosa, anonima e amorfa; la tua motosega ha reciso le mie radici abbattendo perfino le ultime stele ai cui piedi deponevo nostalgicamente un fiore. Non l'avevo capito e c'è voluto Rumiz perché aprissi gli occhi. Il resto del racconto risveglia in me solo le emozioni di un semplice viandante.

​Impressioni su: ANNIBALE - UN VIAGGIO di Paolo Rumiz

Lettura iniziata un po' di malavoglia perché, dopo dodici libri dell'autore, credevo di conoscere Rumiz fino nelle budella; se non altro attraverso le riflessioni, le sensazioni, le emozioni, le fantasie che ha saputo risvegliare in me. Non lo credevo capace di rapirmi un'altra volta.

«Forse Annibale è solo una scusa per ascoltare l'imperativo categorico scolpito nel nostro Dna di nomadi repressi. Viaggiare». Così egli scrive a pag. 19.

Rumiz il dissacratore della storia; lo slavo di Trieste con lo sguardo fisso ad Oriente, sempre in direzione opposta alla rotta di Colombo, ma in fondo anche la meta di Colombo era l'Oriente. Rumiz meticcio d'Italia come tutti noi.

La sua è l'ennesima favola su Annibale, ma non è forse di favola in favola che si costruisce la storia?

«Stelle cadenti sullo Jonio, così grosse che fanno rumore…»

Rumiz l'affabulatore, capace di rianimare anche le ossa dei morti, le pietre, gli alberi, i monti, le notti. Cantastorie che con le parole sa dar vita alle cose.

Mi ricorda la buon'anima di mio padre, coetaneo del XX secolo perché nato con esso; veneto assai poco alfabetizzato, che scriveva "peppe" intendendo il pepe e "belo" parlandomi del bello, ma dalla fantasia vivace, inesauribile ed insuperabile; cantastorie mancato che incantava noi piccoli con fiabe e favole inventate lì per lì facendoci navigare verso luoghi arcani.

Rumiz che fa?

Unico scrittore vivente capace di farmi sognare come quand'ero bambino, di farmi volare sul tappeto verso paesi e avventure da Mille e una Notte, perché pur "navigando" in terra d'Occidente, in fondo a questo tredicesimo libro c'è ancora insistentemente Istambul e lui nuovo Aladino che, strofinando la lampada, ci avvolge col fumo e il profumo d' Oriente.

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