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Albe e tramonti

La vita è un'altalena, un saliscendi tra un volare e un precipitare. Di fronte alla quotidiana analisi della follia, cui la professione mi costringeva da anni, soffrivo impotente. Recalcitravo senza scorgere soluzioni alternative. A sorreggermi non c'era più la curiosità del neofita né, col passare del tempo, avevo saputo rifugiarmi nel menefreghismo della deformazione professionale: sottile crosta protettiva capace di preservare l'integrità psichica ottundendo la sensibilità.

Le cieche, generose illusioni scolastiche avevano avuto la peggio nell'urto con la realtà psichiatrica operativa, vuoi per le carenze istituzionali e sociali, vuoi per l'essenza stessa della malattia mentale.

Scindere la malattia dal malato oggi suona blasfemo, ma chi sostiene la teoria che esiste solo il malato e non la malattia commette un errore epistemologico, perché il malato di mente è un malato come tutti gli altri, vittima di una specifica malattia, a meno che non si consideri la follia come una variante biologica dell'essere umano, ma allora il malato di mente non esiste più perché esiste solo l'uomo nella sua biodiversità. La psichiatria diventerebbe una scienza inutile e fasulla.

Semmai il problema è semeiotico e ruota attorno al concetto di normale e la sua omologazione nel contesto sociale e antropologico, non di uomo.

Mi rendevo conto vieppiù come la farmacoterapia altro non fosse che un metodo di contenzione chimica che sostituiva la precedente disumana contenzione fisica, riuscendo, nella maggioranza dei casi, a dare un valido contributo alla risocializzazione parziale del malato, senza per questo risolvere minimamente il problema causale.

Non sapevo convincermi che le poche, vere guarigioni fossero di natura farmacologica piuttosto che spontanea, dal momento che in letteratura queste remissioni avvenivano anche prima dell'introduzione degli psicofarmaci. Il maggior valore percentuale posteriore era solamente illusorio perché strettamente legato alla perpetua somministrazione delle medicine. La sospensione della terapia portava inevitabilmente alla ricaduta, il che dimostrava come il farmaco coprisse la sintomatologia patologica, non la risolvesse.

La cosa poteva anche calzare a pennello per la società che si trovava confrontata con un asociale addomesticato, ma per la personalità del paziente? In che misura ciò non costituiva una violenta coartazione imposta? Per il malato non sempre vi è una sofferenza soggettiva dovuta alla psicosi e là dove non c'è sofferenza il samaritanesimo è invadenza pura.

Se gli psichiatri leggessero l'intera opera di Alda Merini, una delle due più grandi poetesse del XX secolo (l'altra è Antonia Pozzi), conoscendo le vicissitudini manicomiali confrontate con la produzione letteraria e col vissuto di malata recidiva sballottata da un manicomio all'altro, forse imparerebbero un po' di umiltà. Per non parlare del "male di vivere" che afflisse tanti poeti e scrittori da Antonia Pozzi a Cesare Pavese.

La psichiatria odierna pare una sinfonia scritta sul pentagramma delle ditte farmaceutiche e ne segue l'evoluzione e l'involuzione in chiave economica.

Nel corso di trent'anni d'attività ospedaliera avevo assistito prima a uno smodato dilatarsi della psichiatria che tendeva a psichiatrizzare l'umanità intera, dimenticando che la diversità è prerogativa della vita e vi sono dei limiti molto ampi entro cui essa rientra nella cosiddetta norma, ma questo ridursi dello spazio riservato alla libertà comportamentale e la conseguente contrazione del concetto di normale aveva come risultato l'elefantiasi del manicomio. Con la successiva introduzione del concetto di presa a carico globale si ridussero i posti letto, ma si produsse il proliferare delle istituzioni parapsichiatriche d'ispirazione basagliana, esterne al recinto ospedaliero, psichiatrizzando di fatto l'intero territorio, dando al paziente l'illusione di una maggiore libertà quando invece lo si legava al guinzaglio di mamma neuro dalla culla alla bara: una specie di ergastolo ai domiciliari.

L'ostilità sempre più aperta della società che si ritrovava fra i piedi una scomoda asocialità che credeva confinata altrove, sotto la pressione esercitata dall'esplosione dei costi della salute (mai dimenticare il fattore economico) produsse il rigurgito di una depsichiatrizzazione reattiva, tendente alla negazione della malattia. Per non essere costretti a fare retromarcia e tornare al punto di partenza, si ridussero i tempi di degenza in barba agli esiti delle cure. Ecco allora gridare con enfasi alla sconfitta della malattia grazie alle nuove generazioni di psicofarmaci.

Mi chiedevo se avesse senso fare come gli struzzi per salvare la faccia

Il fallimento della psichiatria riguardo al problema di fondo: la rimozione delle cause e non la remissione sintomatica temporale era evidente. Tutto ciò dava al mio lavoro l'amaro sapore di una mistificazione.

Non basta cambiare un'etichetta e le modalità di stoccaggio, bisogna anche cambiare il contenuto della bottiglia altrimenti è un imbroglio e il contenuto si chiamava malattia mentale che continuava ad essere tale.

La soluzione a livello di convincimento personale semplicemente quel tanto sufficiente a mettermi il cuore in pace e a darmi conferma non dell'ovvia inutilità, ma della piena necessità, se non altro per limitare i danni, di una professione così concepita e impostata era ingarbugliata e lontana.

Continuare o lasciare? La scienza fa progressi strepitosi e la speranza è sempre l'ultima a morire. Decisi di continuare e continuai fino alla quiescenza.

Quando ti senti stanco, sfiduciato, avvilito. Quando ti sembra che tutto crolli intorno a te e ti pare di essere finito in fondo a un vicolo cieco senza neppure la possibilità di tornare sui tuoi passi, perché la vita non ha una retromarcia, ricomincia il recupero.

È un processo quasi automatico, non sei tu a innescarlo. Puoi soltanto assecondarlo o rifiutarlo.

La massima rubacchiata a V. G. Rossi del vivere la vita come esperienza e spettacolo, mi ha sempre permesso di prendere le distanze dal nero più nero e di guardare in faccia alla sventura e alla delusione con occhio ottimistico, aspettando lo sprazzo di sole che squarcia le nubi e annuncia l'approssimarsi del sereno.

Non è necessario essere buddisti o seguaci dell'induismo per cogliere il positivo di ogni delusione.

Per me l'acqua viva che mi rigenera e ristora è sempre stata il recupero delle mie radici, in cui tuffarmici col ricordo, col sogno e con la fantasia.

Devo fantasticare per poter evadere, lasciar decantare i problemi quel tanto sufficiente a riposare il corpo e la mente affaticati.

Non mi è mai sfuggito l'aspetto autistico della soluzione adottata, con tutti i pericoli impliciti, ma non significa necessariamente dissociarsi dalla realtà. Basta non chiudere mai a chiave la porta dietro le spalle.

È una pausa periodica di bilancio e per farlo seriamente bisogna rivedere i saldi di tutti i giorni del tuo calendario. Conviene farlo con calma, un poco alla volta.

Rivedere il passato si rivela straordinariamente riposante, anche là dove s'insedia ciò che vorresti aver dimenticato per sempre, basta accettarlo serenamente, anch'esso come parte di te e ti offre l'opportunità di utili raffronti.

Quando lavoravo e la lunga notte di veglia giungeva al termine, quando il padiglione era tranquillo col suo carico di sofferenza ancora sprofondato nel sonno e dalla finestra della farmacia di reparto la luce filtrava da tempo, spalancavo i vetri e rimanevo appoggiato al davanzale per respirare la brezza del mattino.

Contemplavo l'aurora: un'aurora fredda, con colori scialbi di un rosa slavato misto al giallo terra di Siena stinto in un cielo quasi terso. Non era un'aurora particolarmente esuberante, non capace di affascinare, eppure destava un profondo senso di poesia.

Dopo avere ammirato a lungo il sole nascente fra un intrico di rami ancora spogli, mi sorprendevo a meditare su una considerazione giovanile, tanto ovvia da essere banale e per giunta tutt'altro che nuova e originale, ma a scoprirla c'ero arrivato per conto mio, senza suggerimento di libri o di sapienti. Per questo mi ci ero affezionato: che la poesia non è una prerogativa delle cose, ma un sentimento che sta dentro di noi.

Mi chiedevo perché da tanti, da troppi anni avessi perso questo senso poetico, questo entusiasmo nella vita capace di far gioire delle piccole, insignificanti cose che ti circondano e che cantavo in versi nella prima giovinezza.

Mi chiedevo il perché di un silenzio lungo quarant'anni non trovando risposta.

Allora accantonavo il mio cerebralismo filosofante sul perché di tutto, preferendo starmene lì a sognare, a ricordare un mondo perduto, fagocitato dal tempo e dal progresso: il paesaggio della mia prima infanzia.

Sì, perché il bilancio lo comincio sempre dal numero più basso e lontano, dalle barbicelle attaccate alle prime radici, dal mio paese natale, non da quello dove crebbi e neppure da quelli dove la vita mi aveva di volta in volta trapiantato come i giardinieri fanno con gli alberi.

Rievocavo quella allora sterminata, solatia campagna padovana biondeggiante di grano; i laceri cappelli di paglia dei mietitori, i loro dorsi ignudi sciorinati al sole come i panni delle comari al lavatoio, i loro volti color della terra per i raggi cocenti che li baciavano senza sosta dall'alba al tramonto, come donna innamorata travolta dal colmo della passione. Volti sui quali spiccavano due cornee bianche come uova sode sgusciate. I covoni di grano, i mucchi di fieno profumato, il canto delle allodole all'alba.

Ricordavo, come se li stessi vedendo ancora, gli azzurri fiori del lino, i rustici fusticini della canapa fra i quali m'immergevo fanciullo nel rimpiattino; i profondi, enormi fossati colmi d'acqua ove di notte, con le lampade a carburo appese a un lungo bastone, i contadini andavano per gamberi e rane fra le fascine di canapa messevi a macerare. Arricchivano così la loro dieta pellagrosa.

Mi pareva di avere ancora negli orecchi l'assordante strepitio delle cicale. Mi rivedevo seduto all'ombra di quei platani secolari, fradicio di sudore, rosicchiare le mele acerbe ed asprigne che i compagni più grandicelli rubavano negli orti, mete delle loro scorribande nell'ora della siesta, quando tutto si fermava e il meriggio diventava più silenzioso della notte.

Riemergevano come immagini fatate, avvolte nella penombra dei solai, i graticci di filugelli: i candidi bachi da seta che,ondeggiando la testa, filavano le anse del loro serico carcere. I filari di gelsi, le vigne, le stalle, i buoi monumentali, meravigliosi nella loro marmorea, statuaria immobilità.

Mi sembrava di vedere le ragazze sciacquare nei fossati cicalando; le vecchie sedute a tirare il pettine del telaio nell'angolo più remoto della stalla immensa, biascicando rosari o spettegolando su gravidanze più o meno legittime.

Fiutavo ancora l'odore caldo e umidiccio del concime, il rumore degli animali che ruminavano in silenzio. Il rifugiarmi d'inverno nel tepore uniforme dell'ambiente saturo d'alito di mucche, che consentiva all'intera famiglia di ripararsi dal freddo lasciando spegnere il camino dell'enorme cucina. Camino che veniva tenuto acceso solo per il pranzo e la cena, quando era giocoforza sedersi tutti attorno al desco comune per consumare il cibo. Le parole d'ordine sottintese erano parsimonia e risparmio che, se fosse stato necessario, sarebbero state insegnate ai bambini ancor prima che sapessero pronunciare : mamma.

E le notti, le notti di allora! …

Un cielo nero di pece e le stelle ammiccanti: milioni di stelle nitidissime lì, poco sopra le tue dita distese nel tentativo di coglierle come ciliegie. Le strade bianche serpeggianti, che appena baluginavano al chiarore della luna, illuminate quel tanto sufficiente a farti intuire dove mettere i piedi per non finire a mollo nei fossi.

La voce del buio fatta di mille suoni viventi di grilli, di rane, di rospi che zittivano al tuo passare e ricominciavano quando eri qualche passo più in là. La funesta civetta che ti perseguitava da vicino e il gufo lontano: l'amico gufo solitario.

Dalle fattorie disseminate lungo il percorso lo spaventato latrare dei cani mi accompagnava lungo il cammino, dandomi la sicurezza di non essere solo nell'immensità dello spazio. Eppure, se mi fossa capitato di urlare con tutta la forza della disperazione, difficilmente il mio grido avrebbe raggiunto orecchio umano che potesse soccorrermi.

Era la poesia di una solitudine sovrana dove l'uomo era stupito proprietario di se stesso e mezzadro dello spazio, parimenti perso e in comunione con la grandiosità del cosmo per l'assenza di un suo simile che gli fosse a fianco. Oggi invece è immerso in una solitudine nichilista, soffocato dalla turba amorfa e cieca dei suoi simili, dal frastuono delle macchine che invadono il vuoto lasciato dal morto brusio della vita.

Che differenza fra ora e allora! Che delusione questo smodato progresso di benessere materiale, andato ben oltre l'evoluzione umana e al quale nessuno è più disposto a rinunciare, a fare un passo indietro per recuperare il ritardo del proprio adattamento psicologico.

Certamente stavo invecchiando, perdendo il passo e mi riconoscevo sempre meno nel mio tempo, nei miei simili di più vergine età.

La comoda realtà elettronica mi lasciava indifferente, gelido raziocinante e il sentimento poetico era morto per opera di rumori di ferraglia, per puzzo d'idrocarburi, per stridore di gomme su asfalti che hanno soffocato per sempre il paesaggio pascoliano della mia infanzia, quando il potere dominante dell'uomo s'inchinava ancora reverente di fronte alla potenza incontrollata e alla bellezza incontaminata della natura.

Era un mondo di sogno che non mi apparteneva più, ma al quale continuavo ad appartenere nonostante tutto e nel quale mi riconosco tutt'ora, solidamente ancorato dalle mie origini.

Una realtà che rievoca gli atavici engrammi di una razza millenaria, geneticamente scolpiti e sepolti nel subconscio della specie. È per essi che l'interminabile catena umana si perpetua e si riconosce di anello in anello, senza soluzione di continuità, pure nell'urto di ere contrastanti, irriconoscibili l'una all'altra nell'incessante divenire storico; engrammi con un nome: radici.

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